lunedì 14 dicembre 2009

Comma 22

La strip delle mitiche Sturmtruppen di Bonvi mi è venuta in mente dopo aver cercato risposta alla domanda che mi ponevo nel post dedicato a cosa stessi acquistando quando pago un DVD.

Dunque, ricapitoliamo:
  • fare una copia ad uso personale di un supporto lecitamente acquistato e contenente materiale coperto da diritto di autore è un mio diritto;
  • proteggere un supporto contenente materiale coperto da diritto di autore affinché non sia possibile farne una copia è un diritto dell'autore;
  • la legge italiana vieta in ogni caso la forzatura dei meccanismi di protezione alla copia.
In altre parole: io sono libero di fare una copia ad uso personale purché non forzi i sistemi posti per impedire tale copia.

Comma 22: chiunque sia pazzo può richiedere di essere esonerato dal servizio militare ma chi chiede di essere esonerato dal servizio militare non è pazzo.

Trovate la differenza....

domenica 6 dicembre 2009

Il foglietto illustrativo

Premetto che non sono superstizioso e, da uomo di scienza, non credo alle leggi di Murphy ma ...
... perché mai quando apro una confezione di medicinali per estrarne il blister o le bustine mi trovo sempre dalla parte del foglietto illustrativo?
Anche quando sono ragionevolmente certo di essere dal lato giusto una invisibile manina ha provveduto a spostarlo facendomelo trovare bello avvolto a U intorno al contenuto.
Con aria strafottente pare che dica: se vuoi le pillole passa dall'altro lato.

Secondo me non si tratta di un semplice foglio di carta ma di un entità robotica mutante. Robotica perché, come accennato, si muove da un lato all'altro della scatola. Mutante perché se provate ad aprirlo non c'è più verso di ripiegarlo come era e l'unica spiegazione è che il suo dispiegarsi provochi una mutazione. Potete essere cintura nera di origami ma vi avanzerà sempre una piega che è al contrario rispetto a ciò che dovrebbe.

Devo aggiungerlo o è ovvio che queste cose accadano di notte e quando siete malati?

P.S. l'uomo di scienza non crede alle leggi di Murphy ma l'ingegnere si. Eccome...

sabato 21 novembre 2009

Cosa sto acquistando?

E' la domanda che mi pongo ogni volta che, alla cassa, pago un film in DVD (recentemente, causa bimba, tutti Little Einstein by Disney) o un CD musicale.
Lo so che mi credete un brontosauro perché acquisto ancora dei supporti fisici ma per me sono importanti anche come feticci, tanto che ne conservo gelosamente alcuni di cui non ho più nemmeno il player. Ho delle musicassette che rappresentano pezzi della mia vita (quelle su cui ho registrato le canzoni che componevo al pianoforte), altre che hanno fatto da sottofondo a momenti indimenticabili e ne portano ancora il sentore. Come liberarsene anche se in casa non esiste più un mangiacassette?

Ma sto divagando, torniamo all'oggetto di questo post: quando acquisto un film in DVD cosa sto acquistando effettivamente?

La domanda non è peregrina e, a mio avviso, impatta su molti aspetti che vanno dai diritti di autore alla possibilità di copia ad uso personale, dalla durata del diritto ad usufruire del contenuto alla salvaguardia del mio acquisto.
Facciamo un esempio: acquisto un film in videocassetta VHS. Nessuno può impedirmi di vedere il film quante volte voglio e per tutto il tempo che voglio. Il punto è che la videocassetta si deteriora e, dopo un certo tempo, il film non è più visibile. Cosa succede a questo punto? Capite che se con l'acquisto ho acquisito il diritto a fruire del contenuto, avrei diritto alla sostituzione della videocassetta. Se invece con l'acquisto avessi acquisito il diritto ad utilizzare il supporto finché questo è leggibile, no (come, peraltro, succede).
Già qui si può intravedere un problema: se il diritto ad usufruire del contenuto è legato alla durata del supporto, quanto più longevo esso è tanto più dovrebbe costare (perché più a lungo posso usufruire dell'opera d'ingegno che contiene). Ma questo porterebbe al paradosso che scaricare un CD via iTunes dovrebbe costare molto di più che comprarlo fisicamente: un file non si deteriora, quindi ha una durata molto maggiore di un CD.
Un altro aspetto da considerare è: avendo acquistato un'opera d'ingegno distribuita su di un supporto deteriorabile ho diritto a farne una copia per preservare nel tempo il mio acquisto? Qui casca l'asino: se pagando ho acquistato il diritto ad usufruire dell'opera certamente si, se ho acquistato il diritto ad usufruire del supporto no.

Ma come stanno le cose? Mi piacerebbe saperlo.

Per i CD musicali è sempre stata permessa la copia da originale e vietata, ovviamente, la copia da una copia. Era un giusto compromesso: se da un lato non mi avrebbe salvaguardato dal deterioramento dell'originale, avrei sempre potuto farmi un po' di copie, usare queste nei lettori e essere ragionevolmente tutelato.
Il mondo video è più confuso, in particolare le videocassette VHS. So che la loro diffusione ora è limitata, ma le userò come esempio perché molto significativo.
La copia di una cassetta VHS è vietata in ogni caso ed impedita per mezzo di sistemi di protezione che degradano, quando va bene, la copia. Il metodo più comune è il Macrovision ma ce ne sono altri. Considerando che il nastro è ben più delicato di un CD/DVD il problema è maggiore. La mia copia di Biancaneve e i Sette Nani ha subito cicli di visione giornaliera da parte della bimba tali da essere ormai in crisi e credo che non durerà abbastanza da soddisfare gli appetiti della sorellina ormai in arrivo. Mi toccherà quindi ricomprare il film solo perché l'ho visto tante volte (ammesso di trovarlo perché Disney applica da molti anni una politica di creazione dell'evento che fa si che non tutti i film siano disponibili: provate a cercare il DVD de La Bella e La Bestia che vostra figlia vorrà sicuramente avere se l'avete portata a vedere il musical...).

Per concludere due osservazioni: la prima è che questo post non riguarda le copie pirata ma quelle ad uso personale legate unicamente alla salvaguardia del proprio acquisto. La seconda è che non ero retorico quando dicevo che mi piacerebbe sapere cosa sto acquistando. Se qualcuno lo sa e riesce ad esprimerlo in modo che un ingegnere possa capirlo (ogni accenno al legalese è voluto) è il benvenuto.

venerdì 2 ottobre 2009

Storage e backup

Chi ha una telecamera digitale, specie se HD, e la usa per ciò per cui è costruita, cioè filmare e non per fare il tecno-soprammobile, si trova presto nella situazione di avere gigabyte di dati da gestire. Poco male, direte, oggi si trovano hard disk da terabyte a prezzi irrisori e il problema non sussiste.

Ma siamo proprio sicuri?

Il punto non è avere lo spazio necessario a riversare ora il contenuto della videocamera ma la salvaguardia del girato a lungo termine: come far si che i nostri preziosi gigabyte contenenti quel momento unico e irripetibile che siamo riusciti miracolosamente a cogliere possano resistere al passare del tempo e rimanere fruibili?

Il problema presenta, a mio avviso, tre aspetti da considerare:
  • durata e affidabilità del supporto di memorizzazione
  • possibilità di delocalizzare una copia
  • accessibilità e fruibilità del contenuto
I primi due punti hanno a che fare con il supporto di storage mentre il terzo è più legato al software utilizzato per creare (e quindi rileggere) i contenuti.

I principali storage oggi disponibili sono: hard disk, CD/DVD/BluRay, nastro.
Considerando che gli hard disk esterni sono facilmente trasportabili, tutti e tre permettono di delocalizzare una copia. Ciò è molto importante: non ha senso avere master e backup nello stesso posto. Un eventuale incidente (un incendio o un allagamento, ad esempio, ma anche un furto) farebbe perdere entrambi.
Quanto alla durata occorre dire che i nastri è testato che si riescano a leggere anche dopo 40 anni reali (è recente un progetto che ha portato alla lettura dei nastri contenenti le immagini scattate alla luna dalle prime sonde inviate in orbita lunare). Dico reali perché i nastri esistevano 40 anni fa e oggi possiamo leggerli e fare una statistica di affidabilità nel tempo. Per CD/DVD/BluRay possiamo solo fare ipotesi basate sulle tecniche di invecchiamento accelerato. Quanto agli hard disk beh... non sono così sicuro che un hard disk fermo da 10 anni in una cassetta di sicurezza poi si riavvii senza problemi. Probabilmente si, ma è una periferica che è costruita per stare più accesa che spenta.

Inoltre non è da trascurare l'aspetto legato alla capienza di memorizzazione: il CD è oramai quasi inutilizzabile e il DVD può andare per telecamere non HD. Il BluRay è più capiente ma comunque ne occorrono 20 (considerando i double layer da 50GB) per fare il backup di un hard disk da 1 terabyte.
Sorprendentemente il vecchio caro nastro è ancora imbattuto per il backup: ad esempio l'unità HP Ultrium 1840 che uso ha cassette LTO-4 con capacità di 800 GB nativi (1.6 terabyte con compressione 2:1). Purtroppo costa caro: parliamo di cifre dell'ordine dei 3.000/4.000 EUR che non sono proprio da mercato consumer.

L'accessibilità e fruibilità del contenuto è, invece, una questione spesso sottovalutata. Non basta aver memorizzato il nostro file su di un supporto longevo, occorre anche che, passato del tempo, esista ancora il relativo lettore. Non serve a nulla avere dei CD perfetti se non ho più una unità in grado di leggerli. Inoltre, anche ammesso di avere supporto e unità di lettura compatibile con il sistema, non è detto che sia disponibile il software necessario a decodificare il file. Tra vent'anni ci sarà ancora il codec per i files generati dalla mia telecamera? E potrà girare sui computer che avremo?

In conclusione ho l'impressione che molti stiano generando con soddisfazione contenuti magari irripetibili senza considerare la loro volatilità e vulnerabilità.
Il problema del backup è sempre stato presente nel mondo lavorativo ma ora entra prepotentemente anche nella nostra vita di tutti i giorni. Una volta bastava un vecchio baule in cui mettere le nostre fotografie per poterle rivedere anche dopo cent'anni. Se qualcuno facesse oggi lo stesso con i CD delle sue foto digitali si troverebbe tra cent'anni con in mano dei pezzi di plastica forse perfettamente funzionanti ma anche perfettamente inutili.

lunedì 21 settembre 2009

Autunno

Il passo

E' così veloce il passaggio dall'estate all'inverno. Non te ne accorgi neppure.
Un giorno metti il lenzuolo, un altro il piumone leggero. Una mattina scopri che ti ci vuole il pigiama e un'altra che non vuoi uscire dal letto perché fuori fa freddo.
Così è anche la vita: un giorno ti trovi adulto e ti sembra ieri che giocavi a guardie e ladri in giardino.
Cerchi di rifugiarti nel caldo abbraccio del ricordo di tempi spensierati, ma la sveglia ti dice che devi uscire, devi affrontare il freddo della realtà, delle responsabilità, di tutto ciò che significa essere adulto.
Uscire dal letto è un attimo, ma richiede tanto.
E' un semplice passo, ma separa il mondo dei sogni dalla realtà, il caldo dal freddo, il noto dall'ignoto.
Importante è riuscire a cogliere il passare del tempo, a sfruttarlo tutto per non sentire, un giorno, suonare la sveglia ed essere impreparati al passo che ci porterà con i piedi sul pavimento.
E' un passo breve, un attimo, ma separa il bambino dall'uomo.

Roberto Bolis, 1996

martedì 8 settembre 2009

Risparmio vs efficienza

Qualche giorno fa, andando a fare la spesa, vidi dei cartelli pubblicizzare le lampadine a risparmio energetico.
Mi sorse spontanea una riflessione riguardo alla confusione che si fa ovunque tra risparmio ed efficienza.

Mettiamo in chiaro i termini, per come li intendo io:
  • risparmio è avere meno con meno
  • efficienza è avere di più (o lo stesso) con meno
Mi spiego con un esempio.
Se in casa tengo 20 gradi posso abbassarli a 18 e mettermi un maglione. Consumo meno gas ma ho anche meno temperatura: questo è risparmio.
In alternativa potrei inventare una caldaia più efficiente e tenere i 20 gradi in casa. Consumo meno gas ma non devo mettere il maglione: questa è efficienza.
Attenzione: se perseguo l'efficienza accontantandomi di ciò che ho ottengo un risparmio ma, in questo caso, è una conseguenza e non l'obiettivo.

Il punto è che i risvolti e le ricadute nel perseguire il risparmio o nel perseguire l'efficienza non sono equivalenti. Sarebbe bene che, nella comunicazione al pubblico, fosse ben chiara la differenza e si cercasse di evitare una sovrapposizione dei termini foriera di una equivalenza, a mio avviso, non corretta.

Il risparmio ha un effetto immediato ma non crea valore aggiunto né ricerca: basta accontentarsi di meno e, con quello che abbiamo già, si spende di meno (o si consumano meno risorse e/o si inquina di meno).
L'efficienza, invece, ha effetti più a lungo termine ma crea ricerca e valore aggiunto spingendo verso nuove soluzioni, riscrittura dei processi o identificazione di nuovi materiali rispetto a quelli che sono disponibili e in uso.

Una osservazione riguardo al risparmio: esso ha senso solo se si riferisce ad una risorsa infinita ma disponibile in quantità limitate nel tempo. Se, al contrario, la risorsa è finita il risparmio sposta solo il problema più avanti nel tempo.
E' il problema del bicchiere d'acqua: se mi danno un bicchiere d'acqua al giorno tutti i giorni ha senso risparmiarne il consumo per averne un po' durante tutta la giornata. Se mi danno un solo bicchiere d'acqua e poi basta, risparmiarlo significa solo morire di sete alla sera invece che a mezzogiorno.

In conclusione ritengo che il risparmio non sia mai una soluzione e non dovrebbe essere presentato come tale.
Di fronte al consumo di una risorsa il risparmio è solo la strategia a breve da mettere in atto per guadagnare tempo. Sarà la ricerca che dovrà trovare la soluzione aumentando l'efficienza nell'utilizzo della risorsa stessa al fine di rendere il suo consumo sostenibile con le quantità disponibili nel tempo (risorsa infinita) o possibile la sua sostituzione (risorsa finita).

sabato 29 agosto 2009

Il futuro

Abraham Lincoln scrisse:
La miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta.
Non so se oggi lo penserebbe ancora. A volte ho l'impressione che il futuro sia già qui, pronto ad aggredirci appena voltiamo lo sguardo, senza darci tregua. Chiudiamo gli occhi un istante e quando li riapriamo non riconosciamo più il mondo che ci circonda, tanto è cambiato.
Sembra ieri che, in sala parto, ascoltavo il primo vagito di mia figlia e, tra qualche giorno, lei inizia la scuola materna.

Un nuovo passo per lei, un nuovo passo per me.
Ma siamo noi che camminiamo o è il futuro che ci viene addosso?

venerdì 31 luglio 2009

Ferie lotek

Da domani sono in ferie e penso proprio che ne aprofitterò per restare disconnesso e riscoprire i piaceri lotek.
Un saluto a tutti, un augurio di buone vacanze e ci si risente il 24 agosto.

venerdì 24 luglio 2009

Google non può fallire

Su internet si assiste sempre più spesso alla disponibilità di servizi di grande valore pressoché gratuiti e questo, a mio avviso, apre scenari interessanti i cui risvolti possono essere non così evidenti.
Vorrei condividere con voi alcune osservazioni sorte nell'ambito del mio lavoro e che sono proprie di un mondo ICT che non può prescindere dall'orizzonte temporale di accessibilità delle soluzioni scelte. Un mondo nel quale l'indisponibilità di un servizio si tramuta immediatamente in un costo reale.

Pensiamo, per fare un esempio, a Google: solo pochi anni fa per avere ciò che ci mette a disposizione Maps era necessario acquistare un software di navigazione con relative mappe (a pagamento) da aggiornare periodicamente (sempre a pagamento). Oggi basta andare sul sito e, gratis, possiamo costruirci un itinerario, vedere e stampare cartine personalizzate, addirittura condividerle direttamente con altri. Ho fatto un semplice esempio ma potrei continuare con Gmail, Google docs e molti altri servizi che rasentano e spesso implementano una forma di cloud computing più o meno spinta.
Nel momento in cui una azienda debba implementare nel proprio sistema informativo una funzionalità che è già disponibile via API su internet, si trova di fronte ad un bivio: scriverla da zero (o comprare il relativo software) o integrare il servizio in modalità "cloud" utilizzandolo direttamente o attraverso l'accesso alle relative API. E' evidente che quest'ultima sia la soluzione più rapida e meno costosa. Un esempio lo vediamo nella pletora di siti che, quando devono geolocalizzare un indirizzo, fanno apparire la mappa generata con le API di Google maps (per non parlare degli utilizzi nelle intranet).
Il punto è che se questa "scorciatoia", che spesso non è solo tale ma ha vantaggi notevoli anche in termini di funzionalità non reperibili nei software di mercato, viene diffusamente utilizzata allora diviene strategica. Per tornare al nostro esempio se tutti i servizi di geolocalizzazione dei sistemi informativi mondiali si basassero su Google maps cosa succederebbe se cessassero il servizio? E chi garantisce che ciò non possa accadere dato che non esiste un contratto e stiamo utilizzando una funzionalità gratuita, per quanto potente? (In realtà l'uso professionale delle API Google è a pagamento, ma vedremo come questo ritengo sia irrilevante sebbene implichi un contratto).

Lo scenario è paragonabile a quanto successe con il sistema GPS. Nato per scopi militari, era implementato in modo da riservare la massima precisione solo ai ricevitori in grado di decodificare l'errore che ne degradava i risultati. L'algoritmo era segreto e, di fatto, l'uso civile differiva da quello militare per la precisione del sistema. Il motivo era evidente: in caso di conflitto i nemici non avrebbero potuto usarlo con la stessa efficacia (in realtà non avrebbero potuto usarlo del tutto perché sarebbe stato introdotto un errore tale da renderlo inutile a chi non fosse alleato, e forse nemmeno a questi). Considerato che il GPS viene utilizzato anche per guidare missili e bombe intelligenti questo era un modo per rendere pubblico un servizio senza perdere il vantaggio strategico.
Nel 2000 l'amministrazione americana, sulla spinta degli utilizzatori che reputavano l'errore introdotto una barriera allo sviluppo di nuove applicazioni e strumenti (pensiamo ai navigatori satellitari per le auto, giusto per fare un esempio banale), decise di ridurre pressoché a zero l'errore introdotto, mantenendo però segreto l'algoritmo per eliminarlo. L'idea era: rendiamo possibile l'accesso civile alla massima precisione ma, in caso di guerra, possiamo sempre abbassarla per chi non abbia i nostri ricevitori. Purtroppo il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: la possibilità di avere ricevitori precisi al metro ha fatto si che si diffondessero al punto tale da renderli strategici per l'economia mondiale. Perché "strategici"? Vi faccio un semplice esempio: se domani decidessero di degradare la precisione del GPS civile a +/- 100 metri per motivi militari, tempo poche ore avremo navi schiantate sui moli dei porti, altre perse nell'oceano e flotte di camion che non sanno più dove andare. Sono solo i primi effetti che mi sono venuti in mente. Di fatto la degradazione del GPS non è più possibile (a meno di un conflitto globale) perché i suoi costi sarebbero troppo alti (anche in termini di vite umane).

A questo punto torniamo a Google: nel momento in cui i suoi servizi saranno integrati nei sistemi informativi di aziende, istituzioni, banche e chi più ne ha più ne metta, non sarebbe nemmeno pensabile l'idea che potesse cessare di esistere. Cosi come non sarebbe pensabile che smettesse di erogare tali servizi che non sono, badate bene, quelli legati alla funzione di motore di ricerca (che presenta, in qualche modo, alternative di mercato).

Di fatto Google non può fallire perché, nel caso avesse difficoltà finanziarie, dovrà intervenire giocoforza qualcuno (stato) a tenerla in piedi. Nel caso volesse aumentare il prezzo (o introdurlo) da pagare per l'utilizzo delle sue API, potrebbe farlo.

Ritengo una grande lezione per tutti il fatto che la posizione di forza che Google si è conquistata e che la mette al sicuro si fondi sulla distribuzione pressoché gratuita di servizi. Così facendo li ha resi indispensabili e ha creato una barriera economica alla loro sotituzione che la pone nella condizione di poter, oggi, stabilire il prezzo, anche, e soprattutto, nel caso in cui dovesse trovarsi in cattive acque.

venerdì 26 giugno 2009

Diritto all'oblio in rete, atto II

Ritorno sull'argomento che avevo trattato in un post precedente a seguito della presentazione di un disegno di legge (n. 2455 dell'On. Lussana) in materia.
Punto Informatico pubblica un bellissimo commento a tale disegno a firma di Guido Scorza che mi trova pienamente concorde sul valutare negativamente il provvedimento, ma che lascia, a mio avviso, inalterato il punto focale e cioè che il problema esiste.
Mi par di capire che l'autore del commento non metta in discussione la necessità di fare qualcosa, ma il modo con cui questo qualcosa verrebbe implementato e, in questo, ritengo che chiunque abbia un po' di competenza in materia non possa che concordare con Scorza.

Non voglio ripetere i motivi per i quali ritengo necessario approfondire i risvolti del problema affinché si possa arrivare ad una soluzione e perché lo ritenga un problema (l'ho già fatto nel post precedente). Voglio però aggiungere qualche osservazione a ciò che ho trovato nei commenti sulla rete.

I contrari ad un intervento legislativo in materia si basano, generalmente, su tre assunti:
  • la necessità di oblio dovrebbe valere anche per i media tradizionali (giornali cartacei, radio, TV) e, quindi, se non è mai stato un problema non lo dovrebbe essere nemmeno ora che c'è la rete
  • è un problema sollevato per proteggere il politico di turno e limitare la libertà di espressione
  • la rete non è governabile per mezzo di provvedimenti presi da un singolo paese (e, di fatto, nemmeno da una maggioranza di paesi)
I primi due punti non li condivido, il terzo pone, invece, una barriera forte ad una eventuale soluzione.

Il fatto che la necessità dell'oblio debba valere anche per i media tradizionali è solo teorica. Ciò che rende informazione una notizia pubblicata è la sua rintracciabilità e la persistenza nella rintracciabilità stessa. Una notizia pubblicata sul giornale cartaceo di oggi (e non sulla versione on-line) è rintracciabile, appunto, oggi (per chi lo legge tutto), forse domani (per chi lo lascia in giro) e poi solo a chi fa ricerche in emeroteca (pochissimi).
Di fatto la notizia sul media tradizionale non ha memoria indicizzata e, quindi, la sua rintracciabilità decade secondo i tempi della labilità della memoria umana.
Se mi contatta qualcuno cerco il suo nome su Google ma non andrei mai in emeroteca a sfogliare i giornali o in archivio a risentire le registrazioni di tutte le trasmissioni radio/TV per vedere se parlano di costui. In pratica la notizia esiste ancora ma non essendo più rintracciabile con facilità, di fatto, è come se non esistesse. Una sorta di oblio automatico.

Per quanto riguarda la questione legata al fatto che il problema venga sollevato per difendere il politico di turno ritengo sia irrilevante. Il punto è che il problema c'è per tutti. Anzi, è molto più sentito dalla persona comune che non ha la possibilità di convocare una conferenza stampa per smentire una notizia falsa. Pensate al giovane che si trova chiuse le porte degli uffici del personale per colpa di notizie non vere o incomplete presenti in rete.

Veniamo ora al punto: cosa si può fare?

A mio avviso, putroppo, poco. Essenzialmente per il terzo punto (sovranazionalità della rete) ma anche per la estrema facilità di riproduzione di una informazione nell'ecosistema della rete. Questo è, di fatto, il maggior pregio di internet (la circolazione del sapere) e lo rimane anche considerando che, nella riproduzione, possa esserci una mutazione (il completamento o la correzione del sapere stesso). Il problema sorge quando avviene la riproduzione di un sapere falso o viene mutato un sapere corretto in uno errato: in questo caso il pregio diviene un difetto.
Intendiamoci, non è niente di nuovo: anche con i media tradizionali succede ma, per i motivi a cui ho già accennato e, in particolare, alla rintracciabilità, ritengo che sia rilevante solo nell'ambito della rete.

Tanto più lo strumento è potente, tanto più ne si amplificano i difetti intrinsechi così come, per fortuna, se ne amplificano i pregi. Il punto è trovare un equilibrio tra i due.

Tornando al parallelo con l'ecosistema, la mutazione e la genesi spontanea sono fondamentali per l'evoluzione dello stesso, così come la riproduzione lo è per la sua continuità. Purtroppo nulla impedisce che ciò possa portare alla creazione e riproduzione di un organismo in grado di distruggere l'ecosistema stesso.
La soluzione non è però inibire la mutazione o la genesi. Ciò condannerebbe l'ecosistema ad essere sempre uguale e quindi, non essendo in grado di reagire alle perturbazioni esterne, all'estinzione.
Restano, quindi, altre due possibiltà: pilotare la mutazione e controllare genesi e riproduzione.
Il punto è evitare che l'abuso di questi due strumenti (pilotaggio e controllo) non divenga inibizione. Nel caso dell'informazione questa si chiama censura o limitazione della libertà di espressione.

Ecco, ritengo che le linee da cui muovere possano essere queste: cerchiamo di limitare il sorgere del problema e, qualora si presenti, cerchiamo di limitare la sua propagazione. Senza avere la pretesa di evitare che sorga (non ci riusciremo mai) o che si propaghi (idem). Di fatto cerchiamo di riportarlo a livello di ciò che accade nei media tradizionali: la notizia falsa c'é sempre ma non è influente.

Un'ultima osservazione: non possiamo pensare che un compito di questo genere possa essere svolto dal mondo politico. Non ha competenza specifica e deve affidarsi, quando lo fa, a consulenti o consiglieri che, ovviamente, fanno il loro interesse di parte. Può essere che questo interesse vada nella direzione giusta come in quella sbagliata (è il nostro caso).
Allora chi lo può fare?
Lancio un'idea: perché non applicare alla realizzazione di una proposta di disegno di legge lo stesso modello utilizzato per lo sviluppo di un software open source?
Prendiamo un problema da regolamentare, come può essere quello in oggetto. Si apre un sito ad esso dedicato e si inizia a mettere giù una proposta di disegno di legge, con articoli e commi. Il popolo della rete partecipa secondo la sua competenza specifica con revisioni, debugging e proposte di modifiche. Il disegno di legge cresce e, ad un certo punto, arriva il rilascio della versione definitiva. A questo punto si prende l'onorevole di turno e gli si dice: "La soluzione al problema è in questo disegno di legge, già vagliato dalle persone competenti e filtrato dagli interessi di parte. Mettilo in bella e presentalo che fai bella figura."

Sogno?

mercoledì 17 giugno 2009

Quant'è bella la realtà

Si discute di luoghi virtuali (Second Life - a proposito, che fine ha fatto?), amicizie virtuali (Facebook), fringuelli virtuali (Tweeter), e chi più ne ha più ne metta.
A costo di sembrare retrogrado o ipocrita, visto che il blog appartiene a quell'ecositema, ribadisco che, a mio avviso, niente batte la realtà. Quella senza aggettivi: l'unica possibile. Quella che percepiamo con i nostri sensi e che, proprio per questo, è diversa per ognuno di noi. Un mondo di sensazioni che non ha eguali e che dovrebbe vedere la tecnologia come strumento in grado di estendere il raggio di azione dei nostri sensi e non la sostituzione dell'oggetto da essi percepito.
Posso trovare un amico con Facebook, ma poi lo devo frequentare dal vivo, non solo attraverso un filo. Devo sentirne l'odore, toccarne la consistenza (in tutti i sensi), osservarne i movimenti.

Volete mettere:
Ascoltare il trio che suonava la czarda sotto l'arco alla Petit Venice di Colmar dopo aver preso un'intera giornata di pioggia teutonica in moto (ad agosto).

Il gusto di un Morellino di Scansano "postato" sulla lingua e non nel blog.

Lo "spirito" (meglio se DOC) che accompagna una cena tra amici.

Mandare al diavolo qualcuno e poi farci una risata senza dover ricorrere agli emoticons.
Lo so, a volte sembra masochismo ma la realtà è da vivere anche quando non ci piace.

L'ho già scritto in precedenza: ci sono momenti in cui mi piace essere un lotek e apprezzare ciò che posso raggiungere con una mano o con il suono della mia voce.

P.S. prima che si scateni il putiferio, chiarisco che non metto in dubbio l'utilità degli strumenti in oggetto (l'importanza di Tweeter nel caso delle elezioni in Iran è li da vedere) ma solo che, a mio avviso, strumenti sono e tali dovrebbero rimanere.

martedì 9 giugno 2009

Cosa ti piace?

La mia risposta spesso sconcerta chi mi pone la domanda.
Ad esempio, se mi chiedono
Che musica ascolti?
la mia risposta è
Quella che mi piace.
Fin qui nulla di strano, visto che sarei un ben curioso soggetto se ascoltassi la musica che non mi piace.
La cosa si fa più complessa alla successiva domanda:
Si, ma che genere?
risposta
E' irrilevante.
A questo punto vengo considerato un orso un po' presuntuoso e cambiano discorso (o se ne vanno).
In realtà credo che sia estremamente limitante circoscrivere ciò che ci piace con steccati e recinti che sanno di censura preventiva: se una canzone o un quadro o un'opera d'arte mi piace è irrilevante il genere o stile a cui appartenga.
Se entro in un museo d'arte, lo vedo tutto. Non salto delle sale perché non mi piace, che so, il '700 o l'arte astratta. Ovviamente posso dire che un'opera non mi aggrada, ma dopo averla vista e non prima solo perché appartiene ad un genere che non mi piace.
Questo è il punto: è l'opera che ci deve piacere o non piacere.
Il fatto che il genere a cui appartenga non ci piaccia è solo una questione statistica basata su quante opere appartenenti ad esso ci siano gradite e quante no e non deve essere, a mio avviso, un vincolo.

Il mio iPod contiene, nei suoi 16GB, dalle opere di Verdi e Puccini ai Guns N' Roses e Whitesnake, da Fabrizio De André a Davide Van De Sfroos passando per gli ABBA, il blues di Otis Redding, la dance di Gloria Gaynor, Pavarotti e Alice Cooper, Dr. John e gli Aerosmith, Dave Brubeck e i Culture Club, Beethoven e Alannah Myles, Gershwin e Freddie Mercury, i musical di Webber e le Fiabe Sonore della Fabbri Editori (si, proprio quelle dei 45 giri "A mille ce n'è...").

mercoledì 27 maggio 2009

Percepita da chi?

Da qualche tempo va di moda indicare le grandezze fisiche con unità di misura quantomeno bizzarre.
E' il caso della temperatura: vengono indicati i gradi percepiti.
Ma percepiti da chi? Io a 28 gradi percepisco caldo (schiatto) mia moglie a 32 percepisce freddo (mi chiude la finestra).
Intendiamoci è evidente che fattori indipendenti dai meri gradi centigradi influenzino le nostre sensazioni e anche il mio bisnonno sapeva che 5 gradi con il vento sono più freddi di 5 gradi senza o che l'umidità aumenta il disagio del caldo.
Il punto è che le unità di misura sono e devono essere, per loro natura, oggettive. Aggiungere subdolamente una frazione soggettiva rende impossibile qualunque confronto e, a mio avviso, sembra servire solo ad aumentare l'impatto della notizia.

venerdì 22 maggio 2009

A piccoli passi

Ieri sera la bimba ha voluto andare a letto da sola.
Come suo solito lo ha comunicato in modo semplice e diretto, senza i giri di parole che un adulto avrebbe usato per giustificare ciò che, di fatto, è un passaggio naturale e scontato e quindi non deve essere giustificato.
lei:   Vado a letto da sola.
io:    Vuoi che ti racconti una fiaba?
lei:   No, vado a letto da sola.
La piccola cresce e lo fa con la sfrontatezza di metterci di fronte al passare inesorabile del tempo. Forse è meglio così: ci costringe a renderci conto che i giorni passano e ognuno di essi è e deve essere diverso e vissuto fino in fondo.

Ma che magone...

giovedì 21 maggio 2009

Ciò che fa la differenza

Spesso sono le piccole cose che fanno la differenza e, generalmente, sono quelle a cui si pensa meno o che non notiamo.

Riflettevo su questa incongruenza ripensando ad un viaggio di alcuni anni fa a Norimberga in occasione del mercatino di Natale. Usciti dal ristorante a tarda sera ci incamminammo per le vie della città per tornare in albergo. Norimberga era deserta come solo le città tedesche sanno essere dopo una certa ora. Nevicava e la coltre bianca ovattava i suoni. C'era tanto silenzio da sentire i fiocchi di neve depositarsi al suolo. Ad un tratto il suono di un violino solitario ruppe il silenzio e lo fece con la discrezione che solo un musicista attento a non rovinare un momento sa avere.
Ci fermammo incantati perché tutto intorno a noi divenne diverso.
Grazie alla musica, a quelle poche note emesse con maestria la nostra percezione di ciò che ci circondava cambiò radicalmente. Eppure era la stessa via, gli stessi monumenti, gli stessi spazi.
Spesso dimentichiamo che la realtà assoluta non esiste. Noi percepiamo ciò che ci circonda attraverso tutti i sensi e non solo alcuni di essi. Basta poco per cambiare una cosa brutta in una bella e spesso non ha nulla a che fare con l'oggetto in sé.
Penso che sia uno spunto di riflessione per chi preparerà gli spazi e gli eventi per l'Expo 2015.

P.S. il violinista di Norimberga era un artista di strada che, rifugiatosi nell'androne di un portone, si era messo a suonare. Non lo dimenticherò mai.

mercoledì 13 maggio 2009

Expo Milano 2015

In questi giorni si parla dell'ennesimo intoppo dovuto alla mancanza di una sede. Mi chiedo: è proprio necessario che questa sia in un vecchio, ancorché storico e prestigioso, palazzo del centro? L'effervescenza di Milano e l'inventiva italiana non meriterebbero qualcosa di più?

I have a dream...

Sogno un immenso open space dove le migliori menti (architetti, urbanisti, artisti, intellettuali, pubblicitari,...) possano partorire ogni idea venga loro in mente. Uno spazio aperto a tutto il mondo attraverso la potenza della rete in modo che, virtualmente ma fattivamente, chiunque possa partecipare a questo processo creativo.
Le idee passano all'area dedicata a farne uno studio di fattibilità di massima. Quelle giudicate fattibili vanno alla progettazione e da qui all'area esecutiva (chi fa cosa, quando e in che tempi).
Un area di controllo sovraintende al rispetto delle regole che ogni area deve avere (in particolare quella esecutiva) sia nei confronti di se stessa che delle altre. Il tutto sotto l'ombrello di un area di coordinamento che garantisce la fluidità dei flussi tra aree e derime le vertenze tra esse con potere esecutivo assoluto in ogni campo (si sa chi comanda ed esiste uno che può avere l'ultima parola per definizione e senza lungaggini).
Questo spazio lo sogno in un ex capannone industriale, magari old style ma dotato, a contrasto, della migliore tecnologia disponibile. Immagino simulazioni 3D delle proposte architettoniche, la stampa dei prototipi di comunicazioni, manifesti, brochure, la possibilità di generare mock up reali degli oggetti ideati a corredo e un feedback immediato in rete affinché si possa avere un riscontro del lavoro.

E' un sogno, ma perché non può essere vero?

Si potrebbe rispondere, come sempre, "la politica" e sarebbe facile ma oltre a questa ho paura che ci sia dell'altro.
Il mio sogno necessita di due condizioni per la sua realizzabilità: l'umiltà di tutti nell'accettare le idee e, soprattutto, il giudizio degli altri (che si traduce nel più conciso "andare d'accordo") e l'accettazione di una entità che abbia, insindacabilmente, l'ultima parola senza storie ("se la cosa va per le lunghe e non vi decidete, decido io").

Ritengo l'impossibilità di veder implementate queste due condizioni come il problema maggiore dell'Italia di oggi e l'ostacolo più forte ad ogni sviluppo.
Forse più della politica che, di fatto, ne è il riflesso.

domenica 10 maggio 2009

Il francobollo e lo spam

In un interessante post sul suo blog Roberto Dadda riporta il bizzarro consiglio di Umberto Eco agli spammati: rispondere allo spammer con una mail contenente la Divina Commedia.

Penso che chiunque abbia un po' di conoscenza in materia o, mi verrebbe da dire, un po' di buon senso (non me ne voglia Eco) capisca da sé che questa strategia è perdente: lo spammer non viene intaccato dagli allegati mentre viene favorito dal fatto di aver confermato l'esistenza di un indirizzo magari inventato.

Non voglio dilungarmi sul concetto di spam: personalmente ritengo che non sia nulla di nuovo (era possibile sia con la posta che con il telefono che con il fax) ma solo il risultato di aver messo nelle mani dell'umanità un mezzo di comunicazione che, per la prima volta, non prevede un pagamento da parte di chi trasmette. Come dico spesso se dai corda ad un essere umano la usa per impiccarsi.

Quello su cui vorrei riflettere è: cosa si può fare per ridurre il fenomeno in attesa che l'educazione al corretto uso del mezzo lo faccia scemare di suo (speranza di un inguaribile ottimista)?

Il punto è che pressoché tutte le strategie lavorano sul punto di arrivo. I filtri antispam sfoltiscono le mail ma lasciano il dubbio dei falsi positivi, al punto che, spesso, si dirotta lo spam in una box da controllare periodicamente e perdendo il vantaggio del filtro. Le black list di indirizzi ip devono essere costantemente aggiornate e sono, per definizione, sempre un passo indietro rispetto agli spammers (banalmente si mette in black list un ip dopo che da quell'indirizzo è stato fatto spam).
Di fatto questi strumenti assomigliano alle protezioni hardware dei software che andavano in voga un po' di anni fa: danno problemi a chi si comporta lecitamente e non frenano chi è malintenzionato.
Chi, come me, gestisce l'infrastruttura ICT internamente sa quale incubo è veder finire, per errore, uno dei propri indirizzi in una black list.

E se pensassimo ad una strategia sul punto di partenza?

Sempre nel suo post Roberto Dadda rilancia un'idea che anche io da tempo sostengo ma che avevo smesso di enunciare perché ero stanco delle contumelie che mi attirava: l'unico modo che intravedo per agire sulla fonte è di rendere costoso l'invio dello spam. Questo non implica necessariamente rendere costoso l'invio di una mail, ma di un milione si.
L'idea di un "francobollo" virtuale di basso valore lascerebbe inalterata l'economicità del mezzo ma renderebbe oneroso un tentativo di contatto basato sul concetto che se mando un messaggio ad un milione di persone e ci casca solo l'uno percento...

Gli aspetti tecnici della cosa possono essere complicati, sia in termini di chi e come incasserebbe l'obolo o di a chi andrebbero i proventi, ma ritengo che potrebbero essere facilmente superati impegnando una frazione dei milioni di euro che oggi il mondo perde a causa dello spam.

mercoledì 6 maggio 2009

La bocca della verità

Avere una bimba per casa costringe a fare i conti con ciò che ci circonda in modo nettamente diverso da quello a cui siamo abituati.

I suoi ragionamenti sono, a mio avviso, quanto di più genuino e obiettivo si possa trovare non risentendo delle influenze legate ad una vita di esperienze.
La piccola trae conclusioni basandosi quasi esclusivamente su ciò che vede e percepisce e questo fa si che le sue interpretazioni siano prive di quella tara, frutto della nostra cultura, che noi aggiungiamo falsando la semplice realtà.
Ci rilascia un prodotto netto che stentiamo a riconoscere e che ci sconcerta per la sua semplice, brillante e ferrea logica.

Il problema è quando chiede "perché papà?"

...perché ...perché, ehm ... già, perché?

mercoledì 29 aprile 2009

Si può cambiare idea?

In un post precedente mi interrogavo sull'opportunità di mettere o meno un link a miei posts qualora li citassi in un commento su blog di altri. Ero giunto alla conclusione che non mi sembrasse educato farlo in quanto mi sentivo come uno che, invitato a cena in casa d'altri, proponesse ad un altro invitato di andarsene.

Ho cambiato idea. Non perché siano venute meno le ragioni di educazione, ma perché ho riflettuto sul fatto che non sia così assoluto il si o il no. Come in tutte le cose occorre valutare l'opportunità e l'utilità del link. In parole povere: se per seguire il discorso è necessario leggere la citazione penso che il link ci voglia, se è solo un modo per farsi pubblicità no.

Spero di riuscire sempre a distinguere le due cose. Se qualche volta non ci riuscirò me ne scuso fin da ora.

martedì 21 aprile 2009

Internet è un mondo?

Non sarà che attribuiamo la definizione di mondo a qualcosa che è possibile attraverso internet ma non è internet?
In fin dei conti la rete è solo un mezzo. Il vero mondo, ecosistema, social network o come lo vogliamo chiamare sono le persone che interagiscono tramite internet e non internet in sé.
Altrimenti dovremmo affermare che l'iPod è un grande musicista o una grande orchestra.

Ma se internet non è un nuovo mondo allora richiede veramente nuove regole di comportamento?

A mio avviso non necessariamente. Ritengo che nella grande maggioranza delle situazioni basti la comune educazione e i normali protocolli di convivenza civile che già esistono nelle relazioni interpersonali.

In un post precedente avevo già fatto un paragone tra il mio blog e la mia casa: il post equivale ad un invito a cena e i commentatori equivalgono ai commensali. Il menù lo sceglie il padrone di casa e gli invitati si comportano secondo la loro educazione, ben sapendo che è perfettamente nei poteri del padrone di casa allontanarli o non più invitarli qualora si comportino in modo disdicevole.

Quando mi chiedono se non pensi che l'avere un blog moderato sia una forma di censura, rispondo che, a mio avviso, il blog è come la propria casa (a differenza di forum e chat). Posso dare una festa e lasciare la porta aperta, ma ho anche il diritto di decidere, tra chi si presenta, chi fare entrare e chi no e di allontanarlo qualora, a mio avviso, si comporti in modo non consono. Anche perché pur essendo scritto nel disclaimer che la responsabilità del contenuto dei commenti è esclusivamente dei commentatori stessi, se durante la mia festa un invitato urla e sveglia la bimba del vicino questi se la prende con me e non con il mio invitato.
E ha ragione!

mercoledì 15 aprile 2009

Ambarabà cici coco

Ma qualcuno si è mai soffermato ad ascoltare cosa cantiamo ai nostri bimbi in fasce?
Ambarabà cici coco, tre civette sul comò che facevano all'amore con la figlia del dottore, il dottore si ammalò...
Ci credo che il dottore si è ammalato: già non è molto normale che uno tenga tre civette vive sul comò, ma scoprire pure che la figlia amoreggia con esse...

Altro esempio:
Ninna nanna, ninna oh, questa bimba a chi la do?
Fin qui niente di male, anche se la bimba potrebbe pensare "Perché mamma mi vuol dare via?"
Ma poi si comincia:
La darò alla Befana che la tiene una settimana.
La darò all'uomo nero che la tiene un anno intero.
La darò all’uomo bianco che le tiene finché è stanco.
La darò all’uomo rosso che la butta dentro al fosso.
Il crescendo terrorizzerebbe anche un adulto.

Per non parlare poi degli arditi accostamenti anatomici:
Fate la nanna coscine di pollo...
Pare di sentire la bimba che chiede con occhio umido: "Mamma, perché mi sono cresciute le cosce da pollo?"

Il bello è che, dopo averli terrorizzati con civette in calore, uomini neri e cosce di pollo, auguriamo loro:
sogni d'oro, amore mio
Per fortuna non sanno ancora imprecare...

mercoledì 8 aprile 2009

A mille ce n'è...

... nel mio cuore di fiabe da narrar...
Ricordate le fiabe sonore? Quelle con i 45 giri da inserire nel mangiadischi e le splendide illustrazioni da sfogliare?
Bene, scordatevele perché anche le favole, oggi, devono essere politically correct.

Tempo fa comprai per la bimba un libretto con la favola di cappuccetto rosso. Tutti la conosciamo vero? Falso.
Sappiate che nella versione di oggi il lupo non mangia né la nonna, che riconosciuto il pericolo si nasconde in un armadio, né cappuccetto rosso che al momento del "... è per mangiarti meglio" urla attirando l'attenzione di un taglialegna. Quest'ultimo, che prende il posto del cacciatore, non uccide il lupo ma lo fa scappare dalla finestra. Il lieto fine vede la nonna uscire dall'armadio e tutti e tre mangiare la torta della mamma di cappuccetto rosso.

E che dire de "I tre porcellini" tramutato in un trattato di sociologia in cui mettere a confronto la vita dissoluta del primo (casetta di canne), quella spensierata del secondo (casetta di legno) e quella impegnata del terzo (casetta di mattoni), con il lupo a fare la parte dell'ineluttabile destino (o della coscienza)?

Sarà, ma io preferisco gli originali con tutto il corredo di principi, principesse, fate, streghe, nanetti, orchi, cacciatori e lupi.
E, perché no, qualche invenzione personale come il mago Merlot che predice il futuro leggendo nel vetro di un fiasco di vino.

lunedì 6 aprile 2009

Il silenzio e la mano tesa

Mia moglie ha vissuto il terremoto dell'Irpinia.
Un mio lontano cugino quello del Friuli.
Oggi non servono parole ma il silenzio della disponibilità e il calore della generosità.

martedì 31 marzo 2009

Certe sere...

A volte capita che la bimba voglia essere messa a letto dal suo papà. Siamo solo io e lei nella sua stanzetta gialla e bianca. Una fievole luce illumina il suo visino e dal paralume un sorridente Winnie The Pooh ci osserva.
Guardo i suoi occhioni neri mentre le racconto una favola e li vedo lottare per restare aperti e sapere se il principe bacerà la sua principessa. Ad un tratto si chiudono e sento il suo respiro scivolare lentamente nel vellutato ritmo di un sonno tranquillo e pieno di sogni.
Esco dalla stanza e penso che un uomo non possa chiedere nulla di più alla vita.

lunedì 30 marzo 2009

html, pdf e la mania del dialetto

Niente paura, non intendo scrivere un post in bergamasco.
Del resto non lo conosco abbastanza bene, perderei un sacco di tempo a cercare i codici per dieresi e accenti strani e, soprattutto, mi capirebbero in due o tre.

Il dialetto a cui mi riferisco è quello in cui vengono declinati, da un po' di tempo a questa parte, i linguaggi e i formati che erano nati con lo scopo opposto.
Html e Pdf avevano un obiettivo ben preciso: rappresentare un oggetto, generalmente un testo impaginato o un ipertesto, in modo che l'aspetto fosse identico indipendentemente dal sistema utilizzato. In quest'ottica si stabiliva un linguaggio (html o pdf) in cui descrivere l'oggetto e un reader che trasformasse tale descrizione in una immagine. L'indipendenza dal sistema era ottenuta implementando un reader per ogni architettura disponibile.
L'idea era geniale: una pagina html o un documento pdf apparivano in modo identico indipendentemente dalla macchina (Win PC, Mac, Linux...) e, perdipiù, il reader era gratuito. Questo permetteva di distribuire documenti (pdf) o ipertesti (html) senza doversi preoccupare del fatto che si potessero leggere e sicuri che tutti li vedessero e stampassero allo stesso modo. Senza l'implementazione di questa visione probabilmente internet non sarebbe mai esistita come la concepiamo oggi.

Perché parlo al passato? Perché oggi non è più così.

Chi come me realizza web apps sa benissimo quanti switch occorra mettere nel codice per adeguarlo ai differenti comportamenti dei vari browser di oggi (spesso anche tra varie versioni dello stesso browser). E nel mondo pdf non andiamo meglio: chi non si è trovato di fronte ad un file pdf giudicato corrotto dal proprio reader e che, invece, era solo stato realizzato con una versione successiva di Acrobat?
Capisco benissimo la necessità di evolvere questi linguaggi (oggi scrivere pagine html senza css è inconcepibile, ad esempio) ma tale evoluzione deve procedere secondo passi ben formulati e, soprattutto, standardizzati per tutti da un ente che li formalizzi. Ente che dovrà essere estremamente reattivo alle esigenze ed estremamente severo con chi non rispetta le sue direttive.
Badate bene, non intendo un grande fratello del www, ma un grande coordinatore.

In un mondo che mette in primo piano la virtualizzazione mi viene difficile pensare che per visualizzare una nuova property css sia necessaria una specifica marca di browser e non semplicemente la versione aggiornata di uno qualsiasi.
Ancor più difficile da concepire è che la stessa property abbia comportamenti diversi laddove sia implementata.

Oggi chi realizza pagine html ha solo tre possibilità: codificare in html puro (si torna ai tempi di Berners-lee), riempire il codice di switch o scriversi un framework che li contenga (panico in sede di manutenzione) o utilizzare strumenti di sviluppo (panico al quadrato in sede di manutenzione).

Ovviamente le istruzioni del tutto sono in pdf. Ma per aprirle occorre la nuova versione del reader perché altrimenti...

venerdì 27 marzo 2009

A che serve il sito?

Sarà capitato anche a voi: vi hanno detto una cosa, sul sito apposito c'è scritta una cosa diversa, telefonate al numero indicato sul sito e... vi rispondono che non sanno cosa ci sia sul sito (e, generalmente, vi danno la terza versione diversa).

L'esperienza è recente. Io e mia moglie decidiamo di portare la bimba a vedere un noto spettacolo sul ghiaccio. La rivendita a cui ci rivolgiamo per i biglietti ci dice che se la bimba ha meno di 3 anni e non occupa un posto a sedere non paga.
Così compriamo solo due biglietti.
Tornati a casa vado sul sito ufficiale dello spettacolo perché mi sono dimenticato di chiedere quanto duri. Ovviamente c'è di tutto tranne la durata dello spettacolo. Chissà forse l'hanno ritenuta una informazione non necessaria (se fossi andato in treno e avessi dovuto prevedere il treno per il ritorno non sarebbe stata così irrilevante). Mentre cerco mi scappa l'occhio e trovo scritto che i bambini non occupanti posto a sedere non pagano se minori di due anni. Come due? Non era tre?
La bimba due li ha già compiuti. Certo, a una bimba non chiedono i documenti, ma, per correttezza, telefono al numero che è indicato sul sito. Spiego il dubbio e la gentile signorina mi dice che non sa cosa ci sia scritto sul sito ma che a lei risulta che il limite di età sia 3 anni.
Ringrazio, riappendo la cornetta e mi chiedo: a che serve il sito?

P.S. la durata dello spettacolo l'ho chiesta all'operatrice perché sul sito non c'è. Evidentemente il rientro a casa lo considerano un optional.

giovedì 26 marzo 2009

Wiki si, Wiki no, Wiki boh

Sempre più spesso si assiste allo scontro tra i sostenitori di Wikipedia e i suoi detrattori. Ma chi ha ragione? A mio avviso nessuno dei due perché, come spesso accade per ciò che si trova su internet, confondono lo strumento con il servizio.

Personalmente sono un sostenitore ed utilizzatore di Wikipedia e la reputo una fonte di conoscenza essenziale in un mondo in cui tale conoscenza si incrementa a velocità spaventosa, una velocità non più compatibile con la realizzazione delle enciclopedie tradizionali. O meglio, la necessità di accedere ad una nuova informazione si manifesta oggi molto prima di quanto una tradizionale pubblicazione enciclopedica sia in grado di renderla disponibile.

Ma è affidabile Wikipedia? Personalmente direi di si, ma solo se usata essendo consci dei limiti insiti nello strumento con cui è implementata. In quest'ottica intendevo il fatto che si confonda lo strumento con il servizio.
Una enciclopedia è un servizio del tipo "a domanda risponde" e su questo non ci sono dubbi. Ma è il modo in cui questa risposta è valorizzata e, soprattutto, validata a rendere differente Wikipedia da una enciclopedia tradizionale.

Il punto è che, mentre tutte le informazioni presenti in una pubblicazione tradizionale hanno passato lo stesso processo di validazione prima di essere rese disponibili, per Wikipedia tale processo avviene, generalmente, dopo la loro pubblicazione, attraverso un processo condiviso di raffinamento e correzione.
Questo processo è teoricamente più preciso e rapido che non quello di una pubblicazione tradizionale, ma lascia aperto il dubbio che una informazione, pur disponibile, non sia ancora stata controllata dalla comunità. E qui nasce, a mio avviso, la necessità di utilizzarle con buon senso.

Quanto all'attendibilità di Wikipedia messa a confronto con le fonti tradizionali ritengo che una verifica sia possibile ma irrilevante perché in ambiti empiricamente verificabili sono propenso a pensare che non ci siano troppe differenze nel tasso di errore, mentre in quelli più discrezionali si entrerebbe nella spirale delle diverse interpretazioni che non sono necessariamente errori.

Diciamo che l'enciclopedia di casa è come navigare con un filtro di sicurezza: si perde qualcosa, si può capitare comunque sulla pagina insicura ma generalmente si sta più tranquilli. Se si vuole di più si deve anche stare più attenti.
Come in ogni cosa della vita.

P.S. un suggerimento per Wikipedia: perché non implementare un sistema che permetta a chi legge una informazione di avere una valutazione di quanti l'abbiano giudicata corretta? Basta un pulsantino che incrementi un numero. Certo, si presterebbe agli abusi... però vedere che 1000 utenti hanno letto e giudicato corretto darebbe comunque un'idea.

martedì 24 marzo 2009

I signori dell'idrogeno

E se gli sceicchi, signori del petrolio, diventassero i signori dell'idrogeno?

Spesso si sente parlare dell'idrogeno come di una fonte di energia pulita. In realtà, non esistendo in natura allo stato libero, è più corretto definirlo vettore di energia. In altre parole: dove ho energia disponibile la uso per ottenere idrogeno, trasporto quest'ultimo dove mi serve e lo ritrasformo in energia bruciandolo. Il processo ha, ovviamente, un rendimento pesantemente passivo, ma si ha il vantaggio che dalla combustione dell'idrogeno non si ottiene anidride carbonica, ma solo vapore acqueo.

In un'ottica di riduzione dei gas serra, l'uso dell'idrogeno ottenuto per elettrolisi dell'acqua sembra l'uovo di colombo: l'acqua è abbondante, ottengo come scarto ossigeno puro e l'idrogeno brucia come un normale gas e non richiede l'invenzione di nuove tipologie di motori. Se poi lo uso in pile a combustibile ottengo energia elettrica direttamente e senza organi in movimento.
Allora perché ho detto sembra l'uovo di colombo?
Perché l'elettrolisi dell'acqua richiede enormi quantità di energia elettrica. Capite che se ricaviamo questa da combustibili fossili perdiamo il vantaggio di non avere emissioni serra (le spostiamo solo da un'altra parte) e se usiamo le fonti rinnovabili come eolico e fotovoltaico ricadiamo negli stessi problemi di rendimento e superficie occupata che già le affliggono nel loro uso diretto.

La conclusione è che in Europa vorremmo l'idrogeno ma non possiamo permetterci di produrlo perché sottrarrebbe troppa energia elettrica al consumo diretto.

Con questa prospettiva se fossi uno sceicco arabo conscio del fatto che il mio petrolio prima o poi finirà lasciandomi solo con un pugno di sabbia circondato dal mare ecco cosa farei:
impianterei nel deserto vicino alla costa una decina di centrali nucleari e, con l'energia elettrica da esse prodotta, scinderei l'acqua del mare vendendo all'occidente non più l'inquinante petrolio ma il "verde" idrogeno. Nessun problema nella realizzazione: la tecnologia è abbondantemente disponibile e collaudata, le centrali sarebbero nel deserto e nessun comitato di cittadini se ne lamenterebbe, gli attuali proventi della vendita del petrolio garantirebbero i capitali necessari all'impresa e, soprattutto, se decidessi di riversare l'ossigeno nell'atmosfera limitandomi a vendere l'idrogeno, potrei dire di essere una seconda foresta amazzonica.

Quasi quasi faccio un salto a Riyadh e ne parlo al Re...

Nota per i tecnici del settore: ho volutamente semplificato gli aspetti tecnici sorvolando sul fatto che l'idrogeno è altamente esplosivo, che immagazzinarlo in modo sicuro e volumetricamente vantaggioso è una sfida tecnologica, che il rendimento del processo elettrolitico è estremamente basso, che le centrali nucleari non si costruiscono come barbeque, etc...

domenica 22 marzo 2009

La data di scadenza

Spesso ci si dimentica che un'informazione, per essere tale, deve essere contestualizzata temporalmente. In altre parole, ha una data di scadenza dopo la quale, in quel contesto, non è più informazione.

Mi spiego con un esempio: una quotazione di borsa vecchia di un'ora, a mercati aperti, non è più informazione, ma storia. Il fatto che sia scaduta ha cambiato il contesto in cui quel dato assume il carattere di informazione, passando da quotazioni attuali (dove non ha più valore) a quotazioni storiche.
Ovviamente questo non significa che l'informazione, una volta scaduta, sparisca ma solo che, nel tempo, cambia il contesto in cui essa assume valore, fino al contesto limite di assolutamente inutile. Altrettanto ovvio è che il processo sia reversibile: un dato assolutamente inutile può tornare ad essere utile.

Parlando di diritto all'oblio in rete avevo già sottolineato l'importanza di contestualizzare temporalmente le informazioni che vengono pubblicate per permettere a chi le legga di avere un'idea della loro età. Purtroppo non sempre questo viene fatto con conseguenze, a mio avviso, pericolose. Fate caso a quante pagine siano ricche di links alle fonti ma non contengano una data di pubblicazione.

Se vendo un formaggio devo mettere un'etichetta su cui siano indicati il mio nome e gli ingredienti (attendibilità e fonti) ma devo anche mettere la data di produzione e quella di scadenza.
Perché se pubblico una notizia no?

sabato 21 marzo 2009

Primavera

Sembra una sera come tutte le altre. La stanza, il letto, la dolce attesa del sonno. Ma c'è qualcosa di diverso: la finestra è aperta e, nel silenzio del crepuscolo, mi sorprendo ad ascoltare il suono della natura.
Fuori c'è un mondo che rinasce e lo fa senza esagerazioni, un passo alla volta, in armonia.
I primi grilli di stagione provano i loro strumenti e preparano lo spartito del concerto che durerà tutta un'estate. Non hanno timore di infrangere la mistica quiete del crepuscolo con il loro stridulo suono. Sanno che, senza di loro, una sera d'estate non sarebbe la stessa.
L'aria è tranquilla. Un sottile refolo di vento venuto da molto lontano raccoglie e porta con sé le essenze di mille fiori, la freschezza delle acque limpide di torrente, il penetrante profumo del sottobosco montano, l'umido sentore dell'erba appena falciata. Non puoi riconoscere un odore dall'altro, ma tutto l'insieme è perfettamente accordato, come se un mago alchimista avesse deciso di realizzare un sogno e lo avesse chiamato primavera.
E' in momenti come questo che la mia mente riesce a uscire dalla sua fredda gabbia scientifica e vaga libera, inseguendo sogni ed emozioni. Mi lascio cullare da ciò che mi circonda. Assaporo ogni istante. Lascio che questa voglia di rinascere che pervade alberi, fiori, animali ed insetti entri dentro di me e mi doni un momento di sicurezza e di speranza.
E' una sensazione bellissima.
Volo in un cielo sgombro ed infinito, lasciando sotto di me i problemi, le delusioni, la rabbia. Quassù non esiste odio, rancore, falsità perché sono cose troppo pesanti e non possono inseguirmi nell'aria leggera e trasparente.
Ogni tanto passo sotto una nuvola e un ombra attraversa il mio cuore. E' come un velo di tristezza che racchiude il pensiero per qualcuno che non può volare e che mi è molto caro. Ma forse anche lui è qui da qualche parte. Forse anche lui sta volando in questo momento perché tutti lo possiamo fare.
So che tutto questo dura lo spazio di un attimo. E' solo un sogno ad occhi aperti e, come un'onda, è destinato ad infrangersi sul bagnasciuga della realtà. Ma nulla me lo può portare via, così come nulla può cancellare la tranquillità di questo momento. E anche se tra qualche istante mi sveglierò di nuovo attorniato dai miei problemi e dalla mia realtà, sarò diverso perché dentro di me sentirò ancora il calore del sole visto più da vicino.
Visto da uno spirito libero che vuole rinascere in un giorno di primavera.

Roberto Bolis, 1996

venerdì 20 marzo 2009

Bletchley Park

Quanto deve essere resistente un algoritmo di crittografia affinché ad esso possano essere affidati i nostri segreti?

Questa è una domanda che ho iniziato a pormi quando, durante il servizio militare, venni a contatto con i vari livelli di segretezza dei documenti. Essendo questi in forma cartacea la soluzione era ovvia e semplice: venivano chiusi in pesanti casseforti le cui chiavi e combinazioni di accesso erano rigidamente controllate. A meno di una effrazione fisica, i documenti erano protetti e le informazioni in essi contenute non visibili.

Ma in un mondo interconnesso e con informazioni in forma digitale, come la mettiamo?

In un precedente post ero giunto alla conclusione che in un mondo interconnesso l'unico modo per trasmettere un'informazione a qualcuno essendo certi di essere gli unici a conoscenza del contenuto fosse di scriverla a mano su di un pezzo di carta, chiuderla in una busta e pagare qualcuno affinché gliela portasse.
In realtà, ovviamente, esiste anche un altro modo ed è quello di crittografarla e trasmetterla in cifra, da cui il titolo di questo post. La crittografia, a mio avviso, presenta però due aspetti critici da considerare. Uno è essenzialmente pratico: a meno di non voler crittare il testo a mano, il lavoro andrà fatto fare ad una opportuna macchina che, ovviamente, dovrà ricevere il testo in chiaro. Nell'ipotesi di un mondo interconesso occorrerà accertarsi che questa non sia connessa e che non lo sia in futuro.
L'altro aspetto è legato alla resistenza dell'algoritmo di crittografia agli attacchi tesi a violarlo. Spesso si tende a valutare questa resistenza in senso assoluto: semplificando si ritiene che il migliore sia quello che resiste più a lungo. In altre parole se, con la tecnologia di oggi, per forzare la crittografia A ci vuole un ora e per la B ci vogliono 10 giorni, B è considerato più sicuro di A. Io però ritengo che la valutazione vada fatta dopo aver stabilito la durata utile dell'informazione da proteggere. Capite che se l'informazione da crittare perde valore dopo 10 minuti, entrambi gli algoritmi A e B sono perfettamente adatti allo scopo e, per l'informazione in oggetto, hanno lo stesso grado di sicurezza.

Per mantenere un segreto in eterno penso che l'unico modo sia tenerlo nella nostra testa. Sempre che qualcuno non inventi una sonda in grado di leggere il pensiero e che si faccia attenzione a quanto si beve.

P.S. Per chi non lo sapesse a Bletchley Park lavorarono, durante la seconda guerra mondiale, i migliori crittoanalisti dell'epoca gudati da Alan Turing. Dai successi di questo centro d'eccellenza nella decifrazione del famigerato codice Enigma (nella versione a 4 rotori usata dalla marina tedesca) dipese l'esito della battaglia dell'Atlantico tra i convogli americani, che rifornivano la Gran Bretagna, e i sommergibili tedeschi, che li volevano colare a picco. E' una storia affascinante che coinvolge anche i primi calcolatori elettromeccanici (le cosiddette "bombe"). Un bel romanzo sull'argomento è Enigma di Robert Harris.

mercoledì 18 marzo 2009

Il mantello

É una sera di freddo e di vento. La campagna, sferzata dalle gelide folate di pioggia, risuona di gemiti e furore.
I cespugli e le siepi si flettono al vento come ad inchinarsi in una disperata supplica di un po' di pace. Anche gli alberi più vecchi, pur fieri e consci della loro maestosità, sembrano tremare al cospetto della furia degli elementi.
Lungo la strada un uomo trascina le sue stanche membra verso una qualche meta lontana. Non ha nulla con cui ripararsi e la bufera, nella sua sadica e vile ostentazione di forza, sembra accanirsi contro di lui.
Sulla stessa strada un altro uomo si dirige verso casa. Viaggia tranquillo, ben protetto dall'abitacolo del suo caldo e lussuoso fuoristrada. Nulla gli importa della furia che lo circonda, giacché nulla essa può su di lui e sulla sua vita ordinata e perfetta.
I due uomini si incontrano e i loro occhi si incrociano per un istante.
É un attimo. L'uomo sul fuoristrada si ferma e piange.
Non piange per quell'uomo infreddolito che arranca nel fango.
Non piange la presunta miseria di quella figura vestita di stracci.
Piange perché quell'uomo, sotto il mantello, riparava una bimba.
Piange perché negli occhi di quel vagabondo egli ha visto la serenità.
Piange perché sa che ogni cosa che la sua agiata vita gli potrà dare non vale quel lacero, sporco, vecchio mantello pieno d'amore.

Roberto Bolis, 1995
Questo vecchio scritto è dedicato alla bimba che il 18 marzo di qualche anno fa è venuta a ripararsi sotto il mio mantello.

martedì 17 marzo 2009

I sogni

Spesso non crediamo in noi stessi a tal punto da privarci dei nostri sogni. Vediamo solo la loro irrealizzabilità e così li chiudiamo da qualche parte, senza accorgerci che con essi rinchiudiamo anche parte di noi.

A volte li chiudiamo in una bottiglia che gettiamo nel mare della vita, sperando che qualcuno o qualcosa la raccolga e trasformi il sogno in realtà. Ma non succede quasi mai.

Certo non dipende tutto da noi: se hai la chiave tu sei il padrone, ma devi trovare la porta giusta altrimenti sei solo un pirla con una chiave in mano.

E poi, il padrone di cosa?

Diciamo del tuo futuro o, se preferisci, del tuo prossimo passato visto che l'uomo che guarda al domani lotta solo per conquistarsi migliori ricordi, giacché il tempo passa e solo quelli restano.

In un passato post mi ero riferito alla mia indole ottimista e fatalista allo stesso tempo. Questo post nato di getto e nemmeno totalmente originale (alcune frasi non sono mie ma sentite negli anni) ne è testimonianza.

lunedì 16 marzo 2009

Il portalettere

In un mondo interconnesso in cui le informazioni viaggiano in forma digitale a velocità spaventosa ha ancora senso il vecchio postino e le buste contenenti manoscritti su carta?
Secondo qualcuno si e io sono uno di questi.

Prima che mi prendiate per matto, o peggio ipocrita visto che sto scrivendo su un media che della carta ha solo il colore dello sfondo, cercherò di spiegarmi.
Lo spunto mi viene dal libro "Luce virtuale" di William Gibson, ritrovato sul fondo di uno scatolone rimasuglio del trasloco.
William Gibson è da molti considerato il padre del cyberpunk e visionario precursore di molte delle cose che oggi diamo per scontate. Ebbene, nel libro descrive un mondo in cui le informazioni circolano in forma digitale e sono presenti in ogni dove. Ogni apparecchio, oggetto e finanche essere è connesso ad una immensa rete, onnipresente e onnipotente. In questo scenario si muovono dei giovanotti (e giovanotte) in bicicletta recanti messaggi, udite udite, scritti a mano su pezzi di carta.

Perché?

Se ci pensate un momento è ovvio: in un mondo in cui ogni oggetto, quindi anche ciò che usate per scrivere, è connesso alla rete come potreste inviare un messaggio a qualcuno essendo certi che nessuno tranne voi e lui lo possa leggere?
Lo so che è sconcertante, ma la risposta è scriverlo a mano con un lapis su di un foglio di carta (tenuto in mano e non appoggiato sul tavolo multimediale del soggiorno), chiuderlo in una busta e affidarlo a qualcuno affinché lo porti al vostro corrispondente.

Semplice vero?

Sarà che, come ho già scritto in passato, ho il firmware obsoleto ma ogni tanto mi piace essere un lotek.

domenica 15 marzo 2009

Squarci nel buio

La realtà non esiste.

Noi attribuiamo valore di oggettività a ciò che la maggioranza percepisce. Ma resta sempre una percezione e il fatto che molti vedano le cose nello stesso modo non è sufficiente a dire che stiano proprio così.
Uno spirito libero pensa da sè. Crede in ciò che percepisce.
Non ha paura del giudizio degli altri. Non si appiattisce sul pensiero comune.
Vive e muore nella realtà che percepisce e in cui crede.

Roberto Bolis, 1997

venerdì 13 marzo 2009

Cyberspazio ed evoluzione

... credo che il cyberspazio significhi la fine della nostra specie.
Davvero? Perché?
Perché significa la fine dell'innovazione - disse Malcom.
L'idea di un mondo interconnesso sa di morte di massa. Ogni biologo sa che piccoli gruppi in isolamento evolvono più rapidamente.
...
Ora, per la nostra specie, l'evoluzione si manifesta principalmente attraverso il comportamento. Per adattarci noi sviluppiamo un nuovo comportamento. E chiunque sa che l'evoluzione si rinviene solo nei piccoli gruppi. Metti tre persone in una commissione, e riusciranno a fare qualcosa. Dieci persone, e tutto diventa più difficile. Trenta, e non succede niente. Un'assemblea di trenta milioni di persone non verrà mai a capo di nulla.

"The lost world", Michael Crichton
Forse è una visione un po' troppo apocalittica, che ricorda il rifiuto verso le nuove tecnologie che da sempre ha accompagnato la storia dell'umanità (non dimentichiamo gli assalti dei contadini alle prime macchine a vapore, viste come frutto del demonio), ma come non pensare ad internet come ad un immenso serbatoio di conoscenze sfruttabile per ottenere le risposte ai nostri problemi attraverso il lavoro degli altri e non il nostro?
In un mondo isolato un ricercatore, davanti ad un problema, dà il meglio di sè. Sviscera il problema, lo analizza attrasverso gli occhi del suo genio ed ingegno, senza essere influenzato dalle idee (magari giuste, ma spesso anche sbagliate) degli altri.
Arriva ad una conclusione, ad una scoperta, ad una interpretazione dei fatti che, proprio perché personale, può essere diversa dalle altre e nuova in tutto od in parte.
Dal confronto degli studi compiuti in assoluta ignoranza uno dell'altro scaturisce il dibattito che porta alla fusione del meglio di ogni parte, generando un tutto che è più della somma dei singoli elementi.
Ecco, io ritengo che internet, come mezzo per lo scambio globale delle informazioni, debba intervenire soprattutto in questa fase.
La mia paura è che un ricercatore, posto di fronte ad un problema, incominci a documentarsi sul web e a vedere cosa sia stato già scoperto o ipotizzato da altri. Questo non può non influenzarlo e, quandanche non si conformasse alle conclusioni di altri, forse perderebbe la possibilità di dare un contributo assolutamente originale.

mercoledì 11 marzo 2009

Perché non c'è mai tempo?

Avete notato come nelle trasmissioni televisive non ci sia mai il tempo per approfondire un argomento?

L'invitato non può mai terminare un discorso e, spesso, nemmeno la prima frase che pronuncia. Il solerte conduttore lo inclaza immediatamente con un'altra domanda scusandosi pure perche' il tempo è tiranno.

Ma quale tempo tiranno! Forse potrà essere tiranno alla fine dell'intervista, qualora questa si sia dilungata, ma non alla prima domanda.

Curiosamente questo succede anche quando ci sia un unico interlocutore e l'argomento scelto in anticipo.
Intendiamoci, io posso capire che laddove si instauri un dibattito tra più persone e siano imprevedibili i tempi degli interventi, il conduttore tenda a stoppare i logorroici, ma deve farlo con l'intento di farli andare al punto del loro discorso, non quello di lasciarci a metà e passare ad altro.
Nelle trasmissioni cosiddette di servizio non dovrebbe succedere che manchi il tempo per parlare di ciò che costituisce l'essenza ed, in ultima analisi, la ragione di vita delle stesse.

Se voglio parlare di scadenze dei prodotti alimentari e invito un esperto, devo calcolare il tempo necessario alla chiarezza e alla completezza dell'informazione.
Se ho solo 5 minuti, lascio perdere.

lunedì 9 marzo 2009

Little dongly things

Per coloro che non avessero mai letto nulla di Douglas Adams si tratta degli alimentatori messi a corredo obbligato di pressoché ogni apparecchio oggi in commercio. Nella traduzione italiana divengono i "piccoli ciaffi cazzuti" che è, a mio avviso, una definizione anche migliore dell'originale.

Il famosissimo scritto di Adams, tratto dal libro "Il Salmone del Dubbio" (The Salmon of Doubt), tratta della proliferazione di alimentatori oggi presente in ogni realtà domestica, con dovizia di particolari, necessario approfondimento e sacrosanta dose di epiteti .

Domanda: stante il fatto che la maggior parte degli ordigni domestici funziona o potrebbe senza sforzo funzionare con lo stesso voltaggio, per quale astruso motivo ogni produttore sceglie il suo ciaffo, lo correda di una spina proprietaria e lo rende incompatibile non solo con i prodotti di concorrenti ma anche con i suoi?
A tal proposito un quesito flash: pur avendo cellulari della stessa marca, quanti alimentatori diversi dovete avere in casa?

Altra domanda: essendo gli alimentatori specifici per uno ed un solo apparecchio, perché su di essi non c'è un riferimento che leghi i due?
In altre parole: se trovo un alimentatore per casa, quasi mai riesco a risalire a che apparecchio fosse legato. E, viceversa, se voglio alimentare un barlafüs (termine lombardo che sta per oggetto di utilità sconosciuta) trovato per casa, non riesco a capire quale sia il suo alimentatore.
In compenso sull'etichetta ci sono migliaia di simboli e informazioni il cui significato è sconosciuto, e inutile, ai più.

Da ingegnere capisco benissimo i motivi di tutto ciò (il più banale è che separare l'alimentatore permette di adeguarsi alle caratteristiche elettriche di ogni paese semplicemente cambiando quest'ultimo e non l'apparecchio alimentato), ma ritengo che alla base di tutto ci sia solo un motivo economico. Tecnicamente evitare il problema sarebbe possibile ma costerebbe troppo e richiederebbe un coordinamento globale difficilmente ottenibile in un mondo competitivo.

Del resto nell'Europa che pensa a regolamentare la curvatura delle banane esistono almeno 5 tipi di spine elettriche diverse (forse sono di più, ma non mi va di contarle). Ne sono certo perché mi sono arrivate tutte nella confezione della docking station per il mio nuovo HP EliteBook 2530p (per inciso e a mio personalissimo parere, splendida macchina).

Opps... è quasi scarico. Dannazione, qual'è il suo alimentatore?

domenica 8 marzo 2009

L'esperto è attendibile?

In Italia mai. Si parte dal presupposto che chi conosca una materia sia latore automatico di un conflitto di interessi, reale o intellettuale che sia.

Ne abbiamo esempio in questi giorni in cui si torna a parlare di energia nucleare. Così come durante i mondiali di calcio siamo tutti allenatori, durante la coppa america tutti skipper e finanche durante gli europei di curling tutti esperti di ghiaccio e stones, così oggi sembra che ogni italiano sia esperto di fisica nucleare, fissione, trattamento delle scorie e tecnologie correlate.

Curiosamente sono tutti esperti tranne coloro che nel settore lavorano, fanno ricerca o insegnano. Questi ultimi non hanno diritto ad intervenire perché, essendo il nucleare il loro lavoro, le valutazioni che fanno non solo sono considerate di parte (e posso anche capirlo) ma nemmeno attendibili (e questo lo capisco meno).
Cosa ancora più bizzarra, qualora uno di questi si dichiarasse contrario all'atomo diverrebbe immediatamente una fonte infallibile di verità.

Nei giorni seguenti all'accordo italo-francese sul nostro rientro nel settore dell'energia nucleare civile, sui giornali che mettono a disposizione la possibilità di commentare gli articoli si è visto e sentito di tutto. In alcuni casi ho provato ad intervenire senza schierarmi contro o a favore (personalmente sono favorevole) ma, più semplicemente, cercando di correggere errori macroscopici che, peraltro, nulla avevano a che fare con nucleare si o nucleare no. Si trattava di cose da semplice esame di fisica o talmente ovvie da essere invalidate applicando l'aritmetica. Del resto io ho una laurea in ingegneria elettronica e, quindi, non sono del settore. Applicavo solo il buon senso (ne abbiamo parlato in un precedente post), un po' di matematica e qualche conoscenza basilare.
Sono stato coperto di contumelie al punto che ho smesso di intervenire (non posso mettere i link agli interventi perché i giornali di cui parlo non mettono a disposizione permalink affidabili).

Di fatto siamo al paradosso che chi sa non è attendibile e chi non sa è la fonte migliore perché imparziale. Curiosa teoria quella secondo la quale per essere imparziali si debba essere ignoranti.

E poi ci si stupisce della fuga di cervelli: tra i tanti motivi ampiamente dibattuti (fondi alla ricerca, baronie universitarie, mancanza di legami tra università e aziende) penso che anche il senso di inutilità dell'essere esperto possa avere il suo peso.

sabato 7 marzo 2009

Squarci nel buio

Ogni tanto mi capita di essere fulminato da una frase o un pensiero.

Può essere un parto della mia mente, una citazione di altri o una curiosa quanto bizzarra mescolanza dei due. A volte ne viene qualcosa di profondo, a volte di criptico, più spesso qualcosa di irripetibile.
Siccome la mia memoria è quello che è (cioé poca), quando mi è possibile annoto questa specie di flash di agenzia che il mio cervello mi manda. In un futuro potrò così rileggerli e chiedermi, con sgomento, cosa diavolo mi passasse per la testa.

Quando troverete il titolo "Squarci nel buio", quindi, sappiate che il post conterrà una frase o un pensiero. Non aspettatevi nulla di eccezionale o particolarmente significativo: il fatto che per me lo fosse non significa affatto che lo sia anche per voi. In realtà non significa nemmeno che lo sia ancora per me, dato il contesto diverso. E' solo una sorta di memoria storica o, se volete, un'altra forma di parole al vento.

Un avviso: quando saranno parti della mia mente, apporrò il mio nome. In caso fossero citazioni di altri non sempre mi prenderò la briga di indicare chi sia l'autore. Un po' perché non sempre è possibile rintracciare l'origine esatta, soprattutto se si tratta di modi di dire o luoghi comuni, un po' perché ritengo sia irrilevante in questo contesto.
Ovviamente se qualcuno si vedesse citato in forma anonima e volesse vedere indicata la sua firma può contattarmi.

Ed ora ecco il primo squarcio
Il sogno in una bottiglia

Un arrestarsi improvviso del respiro in un posto dove non ci sono parole. Come un segmento isolato di un mondo di sogno, abbandonato in un presente indifferente.
Alla deriva, come un messaggio in bottiglia, si affida ai marosi dell'incomunicabilità, ai frangenti dell'egoismo, alla falsa bonaccia dell'ipocrisia.
E' un urlo racchiuso nel vetro, un graffito tracciato sulla sabbia, a volte una scritta su di un vetro appannato.
Vegeta a lungo, come la saggia luce di una candela o vive lo spazio di un attimo, bruciando tutto quello che ha in una scintilla di immenso scoccata tra il bene e il male.

Roberto Bolis, 1996

venerdì 6 marzo 2009

Blogtiquette e autocitazioni

In altre parole: commentando un post nel blog di un'altra persona è corretto mettere un link ad un post del proprio blog?
Attenzione: non sto dicendo che nel commento non possa scrivere che sul mio blog io abbia trattato quell'argomento.
Solo mi chiedo se sia "elegante" o, se vogliamo, "ben educato" accompagnare la cosa con un link.

Personalmente ritengo che il link non ci voglia (parlo, ovviamente, di link a me stesso non alle fonti di eventuali citazioni che devono esserci sempre, quando possibile).

Di fatto, quando commento, sono in casa d'altri e mi viene automatico comportarmi di conseguenza. Se un amico mi invita a cena a casa sua e mi presenta altre persone, mi sembra maleducato proporre ad una di queste di allontanarsi e andare a casa mia. Posso decantare le bellezze della mia magione e, se vorrà, potrà venire a trovarmi, ma in un secondo tempo.
Allo stesso modo se in un commento cito me stesso, chi vuole può venire sul mio blog, ma non mi sembra bello tentarlo con un link quando sono ospite altrui.

Chissà, forse ho solo il firmware obsoleto.

Videosorveglianza: serve a qualcosa?

Premetto che sono favorevolissimo ad ogni forma di videosorveglianza dei luoghi pubblici o di pubblica utilità e ne accetto senza problemi la violazione della mia privacy.
A condizione però che questo serva a qualcosa.

Un mal interpretato, a mio avviso, diritto alla privacy ci mette invece nella curiosa situazione di poter essere spiati in diretta ma non in differita.

Questo post nasce da una esperienza personale.

Mia moglie lascia l'auto in un noto parcheggio di interscambio della periferia milanese. Un parcheggio a pagamento, oltretutto.
Un giorno, al ritorno, non trova l'auto. Sospettando di aver sbagliato piano o posto, la cerca ovunque, ma non c'è.
L'amara conclusione è che l'abbiano rubata.
Dovete sapere che questo parcheggio presenta videocamere di sorveglianza al gate di ingresso, di uscita e in tutte le aree. Probabilmente se vi mettete un dito nel naso mentre avviate il motore, qualcuno vi vede.
Così si reca alla postazione del personale di custodia per comunicare il fatto. Stante la videosorveglianza non dovrebbe essere difficile verificare se l'auto è stata rubata: anche ammesso che le telecamere non coprissero l'area in cui è avvenuta l'effrazione, sicuramente è stata inquadrata al momento dell'uscita dove c'è una sbarra con telecamera a cui occorre fermarsi ed inserire la tessera (per inciso: come è uscito il ladro? Ci sono tessere in surplus senza match tra ingressi e uscite?).
Amaramente scopre che il personale non ha accesso alle registrazioni per tutela della privacy. Essendoci nella postazione una pletora di monitor che inquadrano in tempo reale ogni angolo del parcheggio questo porta alla bizzarra situazione che abbiamo diritto alla privacy in differita ma non in diretta.
Potrei capire che non possano visionare i filmati di giorni precedenti, ma mi chiedo: se il custode con la coda dell'occhio vedesse una situazione sospetta non sarebbe logico dargli la possibilità di rivedere la scena in modo da verificare l'impressione ed intervenire?

Comunque consegnano a mia moglie un modulo apposito (con una rapidità che mi fa pensare che questi furti non siano una novità) e lei si reca presso la caserma dei Carabinieri competente per la denuncia. Ingenuamente pensa che le forze dell'ordine possano visionare i filmati in tempo utile alle indagini. Invece, con scoramento comprensibile, questi ultimi le confessano che loro la richiesta la fanno immediatamente ma la risposta è che per avere le immagini ci vuole l'intervento dei tecnici e prima di un mese non è possibile.

Un mese? Si, un mese per fare una cosa che con il tastino di FF si fa in pochi minuti e che darebbe alle forze dell'ordine una bella immagine in primo piano del ladro (la telecamera al gate di uscita è frontale e riprende auto, targa e guidatore).

Ho il sospetto che se invece che rubarmi la macchina fossi uscito senza pagare le immagini sarebbero state imediatamente disponibili e mi sarebbe arrivato a casa il conto e, magari, una denuncia.

giovedì 5 marzo 2009

Pericoloso precedente

Ritengo che sia una pessima notizia per il mondo del blog.
Blogging and the Associated Press
by Joe Eitel, 2009-03-04

Recently, the Associated Press stunned the blogging world when they announced that they would start setting guidelines for how writers could use their quotes.
What does this mean?
Well, from now on, bloggers will no longer be able to freely quote from AP articles, even if the quotes link back to the original website.
If writers do otherwise, they could get into legal trouble.
L'articolo completo lo trovate qui.

Se passasse questa interpretazione finiremmo per trovarci negli stessi pasticci in cui si trova il mondo della musica o del cinema: non si saprebbe più cosa dire o pubblicare. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. Cosa si può fare e cosa no.
Ma, soprattutto, saremmo tutti sotto la spada di damocle di una possibile denuncia per aver citato qualcuno.

Il binocolo

Tante volte quello che cerchiamo non lo troviamo perché siamo convinti che sia molto lontano e così teniamo lo sguardo puntato verso l'alto, perdendoci tutto ciò che ci circonda da vicino.
E' un po' come quando si perde qualcosa in casa: il modo migliore per non ritrovarlo è incominciare ad escludere dei posti "perché li non può essere".
In questi casi l'impietosa legge di Murphy ci dice invariabilmente che l'oggetto cercato è proprio in uno dei luoghi esclusi a priori.
Traiamone insegnamento: potrebbe succedere di scoprire che ciò che cerchiamo col binocolo lo si possa vedere anche a occhio nudo, se solo lo si volesse.

Provate a fermarvi un momento, prendete un bel respiro e guardatevi intorno: quante cose meravigliose vedete ma non considerate come tali perché le date per scontate? O perché la loro costante presenza le ha rese trasparenti?

Sarà la mia indole ottimista e fatalista allo stesso tempo ma ritengo che il mondo sia molto migliore di come viene descritto e, spesso, percepito. Solo che il bello non fa notizia e il lamentarsi è più chic che essere felici.

mercoledì 4 marzo 2009

Phishing e vecchio caro buon senso

Sempre più spesso mi trovo nella condizione di osservare come le persone, poste in situazioni nuove o apparentemente tali, rinuncino ad esercitare il vecchio e caro buon senso.

Francamente non ho idea del perché, dovendo accendere un oggetto che presenta dei tasti, molti vadano a tentativi piuttosto che leggere ciò che vi sta scritto sopra. La cosa mi ha sempre affascinato ma non l'ho mai considerata un serio problema finché non è apparso il fenomeno del phishing.

Per chi non lo sapesse si tratta di quel genere di messaggi fasulli (mail o anche SMS) in cui un ente a cui siamo abbonati ci richiede di inserire i nostri dati di login (user e password). Il messaggio appare del tutto legittimo, correttamente formattato con loghi e intestazioni e corredato di un motivo apparentemente valido.

Purtroppo ci sono molti che ci cascano e rispondono, vedendosi spazzolato il conto in banca o altro.

Ma perché questo succede? O meglio: perché succede a persone che, apparentemente, avrebbero tutte le conoscenze necessarie a rendersi conto della truffa?
Lo so che dopo il caso Madoff non dovremmo stupirci più di nulla, però...
Però se si presentasse alla porta di una di queste persone un tizio con la tuta griffata con il logo del produttore della sua cassaforte e questi gli dicesse:
"Da un controllo ci siamo accorti di non avere nei nostri archivi una copia della chiave della sua cassaforte. Ce la darebbe in modo da poterli aggiornare?"
credo che chiamerebbe immediatamente le forze dell'ordine.
Eppure si tratta della stessa persona, messa in una situazione del tutto simile. Allora perché?

Ho l'impressione che la risposta risieda nel fatto che la tecnologia ci stia mettendo a disposizione nuovi strumenti ad una velocità maggiore di quanto la cultura al loro uso corretto possa sostenere.
Il fatto che una persona consideri una chiave fisica degna di protezione e una chiave logica (password) no, è indicativo.

Di tecnologia e cultura all'uso penso che parleremo ancora.

martedì 3 marzo 2009

Internet utile

Nel lontano 1993/94 servii lo Stato passando un anno con la penna in testa. Intendo una penna d'aquila (finta) e non a sfera.

Tornato da quella esperienza (ne riparleremo a proposito dell'utilità o meno del servizio di leva, oggi soppresso), decisi di mettere a disposizione di coloro che stessero per partire alcune informazioni pratiche. Scrissi una paginetta che, all'occorrenza, stampavo e consegnavo all'interessato.

Nel 1997 decisi, con una buona dose di presunzione, che il contenuto meritasse un pubblico più vasto e così la pubblicai sul mio neonato sito internet personale. Fu un successo, per i tempi e conservo gelosamente i mail che gli interessati mi mandarono con ringraziamenti ed upgrade.

Per chi si fosse incuriosito la può trovare riprodotta qui

http://www.robertobolis.com/bs/guidaNeoAlpino.html

(i links di allora sono stati accecati perché non più attivi).

Dur per durà!

lunedì 2 marzo 2009

Informazione push vs informazione pop

In un precedente post avevo detto che avremmo parlato ancora di informazione push vs informazione pop.

Per chiarire cosa intendo per push e pop vi faccio un esempio musicale. Supponiamo che mi venga voglia di ascoltare "Perfect day" di Lou Reed.
Posso accendere la radio, ascoltare e, se sono fortunato, potrebbero trasmetterla. Questa è informazione push: ho una esigenza, forse posso soddisfarla ma non so quando e, nel frattempo, devo sorbirmi un mare di altre informazioni di cui non so cosa farmene. Certo, posso cambiare radio se non mi piace ciò che ascolto, ma passo comunque da una playlist ad un'altra e, perdipiù, rischio di perdere ciò che mi serve.
Se, al contrario, vado su iTunes, cerco Lou Reed e scarico "Perfect day" ho informazione pop. Ottengo ciò che mi serve, quando mi serve e solo quello.

La distinzione è, lo riconosco, essenzialmente basata su aspetti pratici. In realtà se su iTunes non ci fosse "Perfect day" o la radio ammettesse le richieste (o avesse pubblicato il suo palinsesto e questo mi permettesse di sapere la data e ora della messa in onda) i casi si scambierebbero.

Prima di internet l'informazione era essenzialmente push: documentarsi era difficile, costoso e terribilmente lungo (chi non ricorda le ricerche sui giornali microfilmati?). Inoltre richiedeva lo spostamento fisico (dovevi andare in biblioteca o dove risiedeva l'informazione cartacea). Non che non ci fosse la possibilità di una informazione pop, ma questa era riservata ai casi di stretta necessità. In generale si preferiva ricevere dall'esterno un qualcosa di già preconfezionato, il cui contenuto era però fuori dal nostro controllo. I periodici, le riviste, le rassegne stampa sono solo alcuni esempi. La parte pop di questo era la scelta della pubblicazione da comprare o cui abbonarsi.

Direte: anche oggi esistono le newsletters e i periodici on-line.
E' vero, ma il loro scopo è, a mio avviso, mutato. Essi rappresentano una fonte di conoscenza che consultiamo perché esula dal nostro quotidiano ma che non utilizziamo più per le nostre esigenze informative.
Forse sono stato un po' contorto e ricorro ad un esempio: se su una rivista pubblicassero la tabella periodica degli elementi, ai tempi dell'informazione push l'avrei ritagliata e messa da parte perché, se mi fosse servito il peso atomico del bismuto, ne avrei avuto bisogno. Nel tempo di internet non la considererei nemmeno poiché le informazioni che contiene le troverei in un istante anche senza di essa.

Ma, allora, nel mondo di oggi c'é spazio ancora per entrambi i tipi di informazione? A mio avviso, certamente si e mi piace pensare che l'informazione pop sia lo strumento e l'informazione push il piacere. Con il pop otteniamo ciò che ci serve, con il push ciò che non conosciamo.

Personalmente amo ancora sedermi davanti alla televisione e non sapere cosa trasmetteranno. I più bei film o documentari che ricordo sono proprio quelli di cui non avevo mai sentito parlare e che in una televisione on demand non avrei mai cercato.

domenica 1 marzo 2009

Diritto all'oblio in rete

In altre parole: ho diritto che certe informazioni siano sotto il mio controllo anche dopo la loro pubblicazione sul web?

La questione non è da poco e lo spunto mi viene da un post di Roberto Dadda sul suo blog.

Incominciamo con il dire che, a mio avviso, dobbiamo considerare due tipologie di informazioni: quelle che volontariamente pubblichiamo in prima persona, come questi posts o la pagina del profilo, e quelle che altri pubblicano e che ci riguardano.

Le informazioni del primo tipo non mi preoccupano più di tanto: se ho deciso di rendere pubblico qualcosa di me, dovrei aver ben chiaro cosa sto facendo. Il condizionale è d'obbligo considerata l'esistenza di personaggi che mettono sulla loro web page il numero di cellulare e poi si lamentano delle telefonate che ricevono.
Il problema che può sorgere in questo caso è solo di obsolescenza: potrei volere che una informazione venisse eliminata perché non più attuale. Ma questo è un aspetto secondario o facilmente risolvibile contestualizzando temporalmente ciò che mettiamo on-line (basta una data nella pagina e chi la legge può farsi un'idea dell'attualità delle informazioni contenute).

Le informazioni che altri pubblicano su di noi, al contrario, presentano aspetti più critici.
Facciamo un esempio: supponiamo che venga accusato di un crimine abbietto e che un giornale pubblichi la notizia sulla sua versione on-line. Questa viene indicizzata e, nei motori di ricerca, il mio nome associato al crimine. Le indagini proseguono e vengo completamente scagionato ma il giornale non pubblica la notizia nella versione on-line.
Ho diritto che la prima notizia, che mi associa ad un crimine non commesso, sparisca dalla rete?
Si e no allo stesso tempo. Si, perché è una notizia falsa (non ho commesso il fatto). No, perché in quel momento era vera (ero sospettato di aver commesso il fatto).
In realtà una notizia è intrinsecamente un divenire: nasce e si evolve con informazioni successive che possono anche rivoltarla completamente. Non c'è nulla di male a tener traccia di tutti i passaggi. Solo che, appunto, devono esserci tutti, altrimenti la notizia diviene inattendibile.
Più che un diritto all'oblio, peraltro impossibile da ottenere anche per meri motivi pratici, dovremmo poter
avere diritto che, se qualcosa viene pubblicato, lo sia per intero, in modo che il divenire della notizia sia esposto nella sua interezza.
Solo in questo modo la notizia può essere definita tale.

Direte: ma perché questo deve valere solo per la rete e non anche per i giornali cartacei? Avete ragione, teoricamente dovrebbe valere per entrambi ma, a mio avviso, le notizie pubblicate su supporto cartaceo sono già intrinsecamente destinate all'oblio perché limitate in termini di spazio (numero di copie del giornale e sua distribuzione territoriale) e tempo (labilità della memoria umana).
Se mi contatta qualcuno che non conosco non vado certo in emeroteca a cercare il suo nome sui giornali, ma una ricerchina in Google la faccio di sicuro.

sabato 28 febbraio 2009

C'era una volta...

... una rivista di nome MC Microcomputer. Chi come me ha iniziato ad occuparsi di computer nei primi anni '80 (o anche prima) non può non averne sfogliato almeno un numero.
Per quanto mi riguarda era uno degli appuntamenti mensili con l'edicolante che, pur non capendo cosa ci trovassi in un mensile che non contenesse nemmeno la foto di una donna o di un mezzo a motore, mi teneva da parte una delle tre o quattro copie che riceveva.
Ricordo gli editoriali di Paolo Nuti, le prove di Andrea de Prisco e le sfide che Corrado Giustozzi lanciava a chi, come me, amava il linguaggio C.
Altri tempi, tempi in cui l'aggiornamento professionale o la mera voglia di conoscenza passavano attraverso i limiti e i tempi di un supporto cartaceo. Se volevi delle informazioni dovevi aspettare l'uscita di un periodico. Oppure andare in biblioteca e cercare un libro o un articolo. Senza indicizzazioni, senza sapere esattamente dove cercare e con unico supporto tanta pazienza e frequenti leccate di dito. Che differenza con internet e Google.

Ma sto divagando e di informazione push vs informazione pop parleremo ancora.

Dicevo di MC Microcomputer: stavo riordinando un vecchio armadio quando mi è capitato tra le mani il numero 116 di marzo 1992. Non ricordando per quale motivo lo avessi tenuto mi sono messo a sfogliarlo. Accanto a pubblicità di "potentissimi" personal computer con processore 486SX a 25 MHz (si, proprio mega e non giga) vedo un residuo di post it. Lo seguo e scopro il motivo per il quale quella copia di MC era rimasta nell'armadio: nella rubrica "StoryWare" dedicata agli scritti fantasiosi dei lettori c'è un riquadro a sfondo giallino contenente un testo il cui autore mi è noto. Si sono proprio io e scrivo, in chiave ironica, di false e reali esigenze nei moderni, per il tempo, Word Processor.
E' incredibile ma alcune osservazioni ritengo siano ancora valide ed attuali nonostante siano passati quasi vent'anni.

Per chi fosse curioso e volesse leggerlo lo può trovare qui

http://www.robertobolis.com/bs/PotentiWP_MC116.pdf

riporto solo la profezia finale
... Verrà un giorno in cui i word processor faranno tutto da soli, anche la stesura del testo, cosicchè non dovrai più impiegare il tuo prezioso tempo per pensare a cosa scrivere, ma solo a trovare il comando giusto tra i 10.000.000 del WP galattico che ti sarai comprato ...
Buona lettura e siate indulgenti, ero giovane.