martedì 31 marzo 2009

Certe sere...

A volte capita che la bimba voglia essere messa a letto dal suo papà. Siamo solo io e lei nella sua stanzetta gialla e bianca. Una fievole luce illumina il suo visino e dal paralume un sorridente Winnie The Pooh ci osserva.
Guardo i suoi occhioni neri mentre le racconto una favola e li vedo lottare per restare aperti e sapere se il principe bacerà la sua principessa. Ad un tratto si chiudono e sento il suo respiro scivolare lentamente nel vellutato ritmo di un sonno tranquillo e pieno di sogni.
Esco dalla stanza e penso che un uomo non possa chiedere nulla di più alla vita.

lunedì 30 marzo 2009

html, pdf e la mania del dialetto

Niente paura, non intendo scrivere un post in bergamasco.
Del resto non lo conosco abbastanza bene, perderei un sacco di tempo a cercare i codici per dieresi e accenti strani e, soprattutto, mi capirebbero in due o tre.

Il dialetto a cui mi riferisco è quello in cui vengono declinati, da un po' di tempo a questa parte, i linguaggi e i formati che erano nati con lo scopo opposto.
Html e Pdf avevano un obiettivo ben preciso: rappresentare un oggetto, generalmente un testo impaginato o un ipertesto, in modo che l'aspetto fosse identico indipendentemente dal sistema utilizzato. In quest'ottica si stabiliva un linguaggio (html o pdf) in cui descrivere l'oggetto e un reader che trasformasse tale descrizione in una immagine. L'indipendenza dal sistema era ottenuta implementando un reader per ogni architettura disponibile.
L'idea era geniale: una pagina html o un documento pdf apparivano in modo identico indipendentemente dalla macchina (Win PC, Mac, Linux...) e, perdipiù, il reader era gratuito. Questo permetteva di distribuire documenti (pdf) o ipertesti (html) senza doversi preoccupare del fatto che si potessero leggere e sicuri che tutti li vedessero e stampassero allo stesso modo. Senza l'implementazione di questa visione probabilmente internet non sarebbe mai esistita come la concepiamo oggi.

Perché parlo al passato? Perché oggi non è più così.

Chi come me realizza web apps sa benissimo quanti switch occorra mettere nel codice per adeguarlo ai differenti comportamenti dei vari browser di oggi (spesso anche tra varie versioni dello stesso browser). E nel mondo pdf non andiamo meglio: chi non si è trovato di fronte ad un file pdf giudicato corrotto dal proprio reader e che, invece, era solo stato realizzato con una versione successiva di Acrobat?
Capisco benissimo la necessità di evolvere questi linguaggi (oggi scrivere pagine html senza css è inconcepibile, ad esempio) ma tale evoluzione deve procedere secondo passi ben formulati e, soprattutto, standardizzati per tutti da un ente che li formalizzi. Ente che dovrà essere estremamente reattivo alle esigenze ed estremamente severo con chi non rispetta le sue direttive.
Badate bene, non intendo un grande fratello del www, ma un grande coordinatore.

In un mondo che mette in primo piano la virtualizzazione mi viene difficile pensare che per visualizzare una nuova property css sia necessaria una specifica marca di browser e non semplicemente la versione aggiornata di uno qualsiasi.
Ancor più difficile da concepire è che la stessa property abbia comportamenti diversi laddove sia implementata.

Oggi chi realizza pagine html ha solo tre possibilità: codificare in html puro (si torna ai tempi di Berners-lee), riempire il codice di switch o scriversi un framework che li contenga (panico in sede di manutenzione) o utilizzare strumenti di sviluppo (panico al quadrato in sede di manutenzione).

Ovviamente le istruzioni del tutto sono in pdf. Ma per aprirle occorre la nuova versione del reader perché altrimenti...

venerdì 27 marzo 2009

A che serve il sito?

Sarà capitato anche a voi: vi hanno detto una cosa, sul sito apposito c'è scritta una cosa diversa, telefonate al numero indicato sul sito e... vi rispondono che non sanno cosa ci sia sul sito (e, generalmente, vi danno la terza versione diversa).

L'esperienza è recente. Io e mia moglie decidiamo di portare la bimba a vedere un noto spettacolo sul ghiaccio. La rivendita a cui ci rivolgiamo per i biglietti ci dice che se la bimba ha meno di 3 anni e non occupa un posto a sedere non paga.
Così compriamo solo due biglietti.
Tornati a casa vado sul sito ufficiale dello spettacolo perché mi sono dimenticato di chiedere quanto duri. Ovviamente c'è di tutto tranne la durata dello spettacolo. Chissà forse l'hanno ritenuta una informazione non necessaria (se fossi andato in treno e avessi dovuto prevedere il treno per il ritorno non sarebbe stata così irrilevante). Mentre cerco mi scappa l'occhio e trovo scritto che i bambini non occupanti posto a sedere non pagano se minori di due anni. Come due? Non era tre?
La bimba due li ha già compiuti. Certo, a una bimba non chiedono i documenti, ma, per correttezza, telefono al numero che è indicato sul sito. Spiego il dubbio e la gentile signorina mi dice che non sa cosa ci sia scritto sul sito ma che a lei risulta che il limite di età sia 3 anni.
Ringrazio, riappendo la cornetta e mi chiedo: a che serve il sito?

P.S. la durata dello spettacolo l'ho chiesta all'operatrice perché sul sito non c'è. Evidentemente il rientro a casa lo considerano un optional.

giovedì 26 marzo 2009

Wiki si, Wiki no, Wiki boh

Sempre più spesso si assiste allo scontro tra i sostenitori di Wikipedia e i suoi detrattori. Ma chi ha ragione? A mio avviso nessuno dei due perché, come spesso accade per ciò che si trova su internet, confondono lo strumento con il servizio.

Personalmente sono un sostenitore ed utilizzatore di Wikipedia e la reputo una fonte di conoscenza essenziale in un mondo in cui tale conoscenza si incrementa a velocità spaventosa, una velocità non più compatibile con la realizzazione delle enciclopedie tradizionali. O meglio, la necessità di accedere ad una nuova informazione si manifesta oggi molto prima di quanto una tradizionale pubblicazione enciclopedica sia in grado di renderla disponibile.

Ma è affidabile Wikipedia? Personalmente direi di si, ma solo se usata essendo consci dei limiti insiti nello strumento con cui è implementata. In quest'ottica intendevo il fatto che si confonda lo strumento con il servizio.
Una enciclopedia è un servizio del tipo "a domanda risponde" e su questo non ci sono dubbi. Ma è il modo in cui questa risposta è valorizzata e, soprattutto, validata a rendere differente Wikipedia da una enciclopedia tradizionale.

Il punto è che, mentre tutte le informazioni presenti in una pubblicazione tradizionale hanno passato lo stesso processo di validazione prima di essere rese disponibili, per Wikipedia tale processo avviene, generalmente, dopo la loro pubblicazione, attraverso un processo condiviso di raffinamento e correzione.
Questo processo è teoricamente più preciso e rapido che non quello di una pubblicazione tradizionale, ma lascia aperto il dubbio che una informazione, pur disponibile, non sia ancora stata controllata dalla comunità. E qui nasce, a mio avviso, la necessità di utilizzarle con buon senso.

Quanto all'attendibilità di Wikipedia messa a confronto con le fonti tradizionali ritengo che una verifica sia possibile ma irrilevante perché in ambiti empiricamente verificabili sono propenso a pensare che non ci siano troppe differenze nel tasso di errore, mentre in quelli più discrezionali si entrerebbe nella spirale delle diverse interpretazioni che non sono necessariamente errori.

Diciamo che l'enciclopedia di casa è come navigare con un filtro di sicurezza: si perde qualcosa, si può capitare comunque sulla pagina insicura ma generalmente si sta più tranquilli. Se si vuole di più si deve anche stare più attenti.
Come in ogni cosa della vita.

P.S. un suggerimento per Wikipedia: perché non implementare un sistema che permetta a chi legge una informazione di avere una valutazione di quanti l'abbiano giudicata corretta? Basta un pulsantino che incrementi un numero. Certo, si presterebbe agli abusi... però vedere che 1000 utenti hanno letto e giudicato corretto darebbe comunque un'idea.

martedì 24 marzo 2009

I signori dell'idrogeno

E se gli sceicchi, signori del petrolio, diventassero i signori dell'idrogeno?

Spesso si sente parlare dell'idrogeno come di una fonte di energia pulita. In realtà, non esistendo in natura allo stato libero, è più corretto definirlo vettore di energia. In altre parole: dove ho energia disponibile la uso per ottenere idrogeno, trasporto quest'ultimo dove mi serve e lo ritrasformo in energia bruciandolo. Il processo ha, ovviamente, un rendimento pesantemente passivo, ma si ha il vantaggio che dalla combustione dell'idrogeno non si ottiene anidride carbonica, ma solo vapore acqueo.

In un'ottica di riduzione dei gas serra, l'uso dell'idrogeno ottenuto per elettrolisi dell'acqua sembra l'uovo di colombo: l'acqua è abbondante, ottengo come scarto ossigeno puro e l'idrogeno brucia come un normale gas e non richiede l'invenzione di nuove tipologie di motori. Se poi lo uso in pile a combustibile ottengo energia elettrica direttamente e senza organi in movimento.
Allora perché ho detto sembra l'uovo di colombo?
Perché l'elettrolisi dell'acqua richiede enormi quantità di energia elettrica. Capite che se ricaviamo questa da combustibili fossili perdiamo il vantaggio di non avere emissioni serra (le spostiamo solo da un'altra parte) e se usiamo le fonti rinnovabili come eolico e fotovoltaico ricadiamo negli stessi problemi di rendimento e superficie occupata che già le affliggono nel loro uso diretto.

La conclusione è che in Europa vorremmo l'idrogeno ma non possiamo permetterci di produrlo perché sottrarrebbe troppa energia elettrica al consumo diretto.

Con questa prospettiva se fossi uno sceicco arabo conscio del fatto che il mio petrolio prima o poi finirà lasciandomi solo con un pugno di sabbia circondato dal mare ecco cosa farei:
impianterei nel deserto vicino alla costa una decina di centrali nucleari e, con l'energia elettrica da esse prodotta, scinderei l'acqua del mare vendendo all'occidente non più l'inquinante petrolio ma il "verde" idrogeno. Nessun problema nella realizzazione: la tecnologia è abbondantemente disponibile e collaudata, le centrali sarebbero nel deserto e nessun comitato di cittadini se ne lamenterebbe, gli attuali proventi della vendita del petrolio garantirebbero i capitali necessari all'impresa e, soprattutto, se decidessi di riversare l'ossigeno nell'atmosfera limitandomi a vendere l'idrogeno, potrei dire di essere una seconda foresta amazzonica.

Quasi quasi faccio un salto a Riyadh e ne parlo al Re...

Nota per i tecnici del settore: ho volutamente semplificato gli aspetti tecnici sorvolando sul fatto che l'idrogeno è altamente esplosivo, che immagazzinarlo in modo sicuro e volumetricamente vantaggioso è una sfida tecnologica, che il rendimento del processo elettrolitico è estremamente basso, che le centrali nucleari non si costruiscono come barbeque, etc...

domenica 22 marzo 2009

La data di scadenza

Spesso ci si dimentica che un'informazione, per essere tale, deve essere contestualizzata temporalmente. In altre parole, ha una data di scadenza dopo la quale, in quel contesto, non è più informazione.

Mi spiego con un esempio: una quotazione di borsa vecchia di un'ora, a mercati aperti, non è più informazione, ma storia. Il fatto che sia scaduta ha cambiato il contesto in cui quel dato assume il carattere di informazione, passando da quotazioni attuali (dove non ha più valore) a quotazioni storiche.
Ovviamente questo non significa che l'informazione, una volta scaduta, sparisca ma solo che, nel tempo, cambia il contesto in cui essa assume valore, fino al contesto limite di assolutamente inutile. Altrettanto ovvio è che il processo sia reversibile: un dato assolutamente inutile può tornare ad essere utile.

Parlando di diritto all'oblio in rete avevo già sottolineato l'importanza di contestualizzare temporalmente le informazioni che vengono pubblicate per permettere a chi le legga di avere un'idea della loro età. Purtroppo non sempre questo viene fatto con conseguenze, a mio avviso, pericolose. Fate caso a quante pagine siano ricche di links alle fonti ma non contengano una data di pubblicazione.

Se vendo un formaggio devo mettere un'etichetta su cui siano indicati il mio nome e gli ingredienti (attendibilità e fonti) ma devo anche mettere la data di produzione e quella di scadenza.
Perché se pubblico una notizia no?

sabato 21 marzo 2009

Primavera

Sembra una sera come tutte le altre. La stanza, il letto, la dolce attesa del sonno. Ma c'è qualcosa di diverso: la finestra è aperta e, nel silenzio del crepuscolo, mi sorprendo ad ascoltare il suono della natura.
Fuori c'è un mondo che rinasce e lo fa senza esagerazioni, un passo alla volta, in armonia.
I primi grilli di stagione provano i loro strumenti e preparano lo spartito del concerto che durerà tutta un'estate. Non hanno timore di infrangere la mistica quiete del crepuscolo con il loro stridulo suono. Sanno che, senza di loro, una sera d'estate non sarebbe la stessa.
L'aria è tranquilla. Un sottile refolo di vento venuto da molto lontano raccoglie e porta con sé le essenze di mille fiori, la freschezza delle acque limpide di torrente, il penetrante profumo del sottobosco montano, l'umido sentore dell'erba appena falciata. Non puoi riconoscere un odore dall'altro, ma tutto l'insieme è perfettamente accordato, come se un mago alchimista avesse deciso di realizzare un sogno e lo avesse chiamato primavera.
E' in momenti come questo che la mia mente riesce a uscire dalla sua fredda gabbia scientifica e vaga libera, inseguendo sogni ed emozioni. Mi lascio cullare da ciò che mi circonda. Assaporo ogni istante. Lascio che questa voglia di rinascere che pervade alberi, fiori, animali ed insetti entri dentro di me e mi doni un momento di sicurezza e di speranza.
E' una sensazione bellissima.
Volo in un cielo sgombro ed infinito, lasciando sotto di me i problemi, le delusioni, la rabbia. Quassù non esiste odio, rancore, falsità perché sono cose troppo pesanti e non possono inseguirmi nell'aria leggera e trasparente.
Ogni tanto passo sotto una nuvola e un ombra attraversa il mio cuore. E' come un velo di tristezza che racchiude il pensiero per qualcuno che non può volare e che mi è molto caro. Ma forse anche lui è qui da qualche parte. Forse anche lui sta volando in questo momento perché tutti lo possiamo fare.
So che tutto questo dura lo spazio di un attimo. E' solo un sogno ad occhi aperti e, come un'onda, è destinato ad infrangersi sul bagnasciuga della realtà. Ma nulla me lo può portare via, così come nulla può cancellare la tranquillità di questo momento. E anche se tra qualche istante mi sveglierò di nuovo attorniato dai miei problemi e dalla mia realtà, sarò diverso perché dentro di me sentirò ancora il calore del sole visto più da vicino.
Visto da uno spirito libero che vuole rinascere in un giorno di primavera.

Roberto Bolis, 1996

venerdì 20 marzo 2009

Bletchley Park

Quanto deve essere resistente un algoritmo di crittografia affinché ad esso possano essere affidati i nostri segreti?

Questa è una domanda che ho iniziato a pormi quando, durante il servizio militare, venni a contatto con i vari livelli di segretezza dei documenti. Essendo questi in forma cartacea la soluzione era ovvia e semplice: venivano chiusi in pesanti casseforti le cui chiavi e combinazioni di accesso erano rigidamente controllate. A meno di una effrazione fisica, i documenti erano protetti e le informazioni in essi contenute non visibili.

Ma in un mondo interconnesso e con informazioni in forma digitale, come la mettiamo?

In un precedente post ero giunto alla conclusione che in un mondo interconnesso l'unico modo per trasmettere un'informazione a qualcuno essendo certi di essere gli unici a conoscenza del contenuto fosse di scriverla a mano su di un pezzo di carta, chiuderla in una busta e pagare qualcuno affinché gliela portasse.
In realtà, ovviamente, esiste anche un altro modo ed è quello di crittografarla e trasmetterla in cifra, da cui il titolo di questo post. La crittografia, a mio avviso, presenta però due aspetti critici da considerare. Uno è essenzialmente pratico: a meno di non voler crittare il testo a mano, il lavoro andrà fatto fare ad una opportuna macchina che, ovviamente, dovrà ricevere il testo in chiaro. Nell'ipotesi di un mondo interconesso occorrerà accertarsi che questa non sia connessa e che non lo sia in futuro.
L'altro aspetto è legato alla resistenza dell'algoritmo di crittografia agli attacchi tesi a violarlo. Spesso si tende a valutare questa resistenza in senso assoluto: semplificando si ritiene che il migliore sia quello che resiste più a lungo. In altre parole se, con la tecnologia di oggi, per forzare la crittografia A ci vuole un ora e per la B ci vogliono 10 giorni, B è considerato più sicuro di A. Io però ritengo che la valutazione vada fatta dopo aver stabilito la durata utile dell'informazione da proteggere. Capite che se l'informazione da crittare perde valore dopo 10 minuti, entrambi gli algoritmi A e B sono perfettamente adatti allo scopo e, per l'informazione in oggetto, hanno lo stesso grado di sicurezza.

Per mantenere un segreto in eterno penso che l'unico modo sia tenerlo nella nostra testa. Sempre che qualcuno non inventi una sonda in grado di leggere il pensiero e che si faccia attenzione a quanto si beve.

P.S. Per chi non lo sapesse a Bletchley Park lavorarono, durante la seconda guerra mondiale, i migliori crittoanalisti dell'epoca gudati da Alan Turing. Dai successi di questo centro d'eccellenza nella decifrazione del famigerato codice Enigma (nella versione a 4 rotori usata dalla marina tedesca) dipese l'esito della battaglia dell'Atlantico tra i convogli americani, che rifornivano la Gran Bretagna, e i sommergibili tedeschi, che li volevano colare a picco. E' una storia affascinante che coinvolge anche i primi calcolatori elettromeccanici (le cosiddette "bombe"). Un bel romanzo sull'argomento è Enigma di Robert Harris.

mercoledì 18 marzo 2009

Il mantello

É una sera di freddo e di vento. La campagna, sferzata dalle gelide folate di pioggia, risuona di gemiti e furore.
I cespugli e le siepi si flettono al vento come ad inchinarsi in una disperata supplica di un po' di pace. Anche gli alberi più vecchi, pur fieri e consci della loro maestosità, sembrano tremare al cospetto della furia degli elementi.
Lungo la strada un uomo trascina le sue stanche membra verso una qualche meta lontana. Non ha nulla con cui ripararsi e la bufera, nella sua sadica e vile ostentazione di forza, sembra accanirsi contro di lui.
Sulla stessa strada un altro uomo si dirige verso casa. Viaggia tranquillo, ben protetto dall'abitacolo del suo caldo e lussuoso fuoristrada. Nulla gli importa della furia che lo circonda, giacché nulla essa può su di lui e sulla sua vita ordinata e perfetta.
I due uomini si incontrano e i loro occhi si incrociano per un istante.
É un attimo. L'uomo sul fuoristrada si ferma e piange.
Non piange per quell'uomo infreddolito che arranca nel fango.
Non piange la presunta miseria di quella figura vestita di stracci.
Piange perché quell'uomo, sotto il mantello, riparava una bimba.
Piange perché negli occhi di quel vagabondo egli ha visto la serenità.
Piange perché sa che ogni cosa che la sua agiata vita gli potrà dare non vale quel lacero, sporco, vecchio mantello pieno d'amore.

Roberto Bolis, 1995
Questo vecchio scritto è dedicato alla bimba che il 18 marzo di qualche anno fa è venuta a ripararsi sotto il mio mantello.

martedì 17 marzo 2009

I sogni

Spesso non crediamo in noi stessi a tal punto da privarci dei nostri sogni. Vediamo solo la loro irrealizzabilità e così li chiudiamo da qualche parte, senza accorgerci che con essi rinchiudiamo anche parte di noi.

A volte li chiudiamo in una bottiglia che gettiamo nel mare della vita, sperando che qualcuno o qualcosa la raccolga e trasformi il sogno in realtà. Ma non succede quasi mai.

Certo non dipende tutto da noi: se hai la chiave tu sei il padrone, ma devi trovare la porta giusta altrimenti sei solo un pirla con una chiave in mano.

E poi, il padrone di cosa?

Diciamo del tuo futuro o, se preferisci, del tuo prossimo passato visto che l'uomo che guarda al domani lotta solo per conquistarsi migliori ricordi, giacché il tempo passa e solo quelli restano.

In un passato post mi ero riferito alla mia indole ottimista e fatalista allo stesso tempo. Questo post nato di getto e nemmeno totalmente originale (alcune frasi non sono mie ma sentite negli anni) ne è testimonianza.

lunedì 16 marzo 2009

Il portalettere

In un mondo interconnesso in cui le informazioni viaggiano in forma digitale a velocità spaventosa ha ancora senso il vecchio postino e le buste contenenti manoscritti su carta?
Secondo qualcuno si e io sono uno di questi.

Prima che mi prendiate per matto, o peggio ipocrita visto che sto scrivendo su un media che della carta ha solo il colore dello sfondo, cercherò di spiegarmi.
Lo spunto mi viene dal libro "Luce virtuale" di William Gibson, ritrovato sul fondo di uno scatolone rimasuglio del trasloco.
William Gibson è da molti considerato il padre del cyberpunk e visionario precursore di molte delle cose che oggi diamo per scontate. Ebbene, nel libro descrive un mondo in cui le informazioni circolano in forma digitale e sono presenti in ogni dove. Ogni apparecchio, oggetto e finanche essere è connesso ad una immensa rete, onnipresente e onnipotente. In questo scenario si muovono dei giovanotti (e giovanotte) in bicicletta recanti messaggi, udite udite, scritti a mano su pezzi di carta.

Perché?

Se ci pensate un momento è ovvio: in un mondo in cui ogni oggetto, quindi anche ciò che usate per scrivere, è connesso alla rete come potreste inviare un messaggio a qualcuno essendo certi che nessuno tranne voi e lui lo possa leggere?
Lo so che è sconcertante, ma la risposta è scriverlo a mano con un lapis su di un foglio di carta (tenuto in mano e non appoggiato sul tavolo multimediale del soggiorno), chiuderlo in una busta e affidarlo a qualcuno affinché lo porti al vostro corrispondente.

Semplice vero?

Sarà che, come ho già scritto in passato, ho il firmware obsoleto ma ogni tanto mi piace essere un lotek.

domenica 15 marzo 2009

Squarci nel buio

La realtà non esiste.

Noi attribuiamo valore di oggettività a ciò che la maggioranza percepisce. Ma resta sempre una percezione e il fatto che molti vedano le cose nello stesso modo non è sufficiente a dire che stiano proprio così.
Uno spirito libero pensa da sè. Crede in ciò che percepisce.
Non ha paura del giudizio degli altri. Non si appiattisce sul pensiero comune.
Vive e muore nella realtà che percepisce e in cui crede.

Roberto Bolis, 1997

venerdì 13 marzo 2009

Cyberspazio ed evoluzione

... credo che il cyberspazio significhi la fine della nostra specie.
Davvero? Perché?
Perché significa la fine dell'innovazione - disse Malcom.
L'idea di un mondo interconnesso sa di morte di massa. Ogni biologo sa che piccoli gruppi in isolamento evolvono più rapidamente.
...
Ora, per la nostra specie, l'evoluzione si manifesta principalmente attraverso il comportamento. Per adattarci noi sviluppiamo un nuovo comportamento. E chiunque sa che l'evoluzione si rinviene solo nei piccoli gruppi. Metti tre persone in una commissione, e riusciranno a fare qualcosa. Dieci persone, e tutto diventa più difficile. Trenta, e non succede niente. Un'assemblea di trenta milioni di persone non verrà mai a capo di nulla.

"The lost world", Michael Crichton
Forse è una visione un po' troppo apocalittica, che ricorda il rifiuto verso le nuove tecnologie che da sempre ha accompagnato la storia dell'umanità (non dimentichiamo gli assalti dei contadini alle prime macchine a vapore, viste come frutto del demonio), ma come non pensare ad internet come ad un immenso serbatoio di conoscenze sfruttabile per ottenere le risposte ai nostri problemi attraverso il lavoro degli altri e non il nostro?
In un mondo isolato un ricercatore, davanti ad un problema, dà il meglio di sè. Sviscera il problema, lo analizza attrasverso gli occhi del suo genio ed ingegno, senza essere influenzato dalle idee (magari giuste, ma spesso anche sbagliate) degli altri.
Arriva ad una conclusione, ad una scoperta, ad una interpretazione dei fatti che, proprio perché personale, può essere diversa dalle altre e nuova in tutto od in parte.
Dal confronto degli studi compiuti in assoluta ignoranza uno dell'altro scaturisce il dibattito che porta alla fusione del meglio di ogni parte, generando un tutto che è più della somma dei singoli elementi.
Ecco, io ritengo che internet, come mezzo per lo scambio globale delle informazioni, debba intervenire soprattutto in questa fase.
La mia paura è che un ricercatore, posto di fronte ad un problema, incominci a documentarsi sul web e a vedere cosa sia stato già scoperto o ipotizzato da altri. Questo non può non influenzarlo e, quandanche non si conformasse alle conclusioni di altri, forse perderebbe la possibilità di dare un contributo assolutamente originale.

mercoledì 11 marzo 2009

Perché non c'è mai tempo?

Avete notato come nelle trasmissioni televisive non ci sia mai il tempo per approfondire un argomento?

L'invitato non può mai terminare un discorso e, spesso, nemmeno la prima frase che pronuncia. Il solerte conduttore lo inclaza immediatamente con un'altra domanda scusandosi pure perche' il tempo è tiranno.

Ma quale tempo tiranno! Forse potrà essere tiranno alla fine dell'intervista, qualora questa si sia dilungata, ma non alla prima domanda.

Curiosamente questo succede anche quando ci sia un unico interlocutore e l'argomento scelto in anticipo.
Intendiamoci, io posso capire che laddove si instauri un dibattito tra più persone e siano imprevedibili i tempi degli interventi, il conduttore tenda a stoppare i logorroici, ma deve farlo con l'intento di farli andare al punto del loro discorso, non quello di lasciarci a metà e passare ad altro.
Nelle trasmissioni cosiddette di servizio non dovrebbe succedere che manchi il tempo per parlare di ciò che costituisce l'essenza ed, in ultima analisi, la ragione di vita delle stesse.

Se voglio parlare di scadenze dei prodotti alimentari e invito un esperto, devo calcolare il tempo necessario alla chiarezza e alla completezza dell'informazione.
Se ho solo 5 minuti, lascio perdere.

lunedì 9 marzo 2009

Little dongly things

Per coloro che non avessero mai letto nulla di Douglas Adams si tratta degli alimentatori messi a corredo obbligato di pressoché ogni apparecchio oggi in commercio. Nella traduzione italiana divengono i "piccoli ciaffi cazzuti" che è, a mio avviso, una definizione anche migliore dell'originale.

Il famosissimo scritto di Adams, tratto dal libro "Il Salmone del Dubbio" (The Salmon of Doubt), tratta della proliferazione di alimentatori oggi presente in ogni realtà domestica, con dovizia di particolari, necessario approfondimento e sacrosanta dose di epiteti .

Domanda: stante il fatto che la maggior parte degli ordigni domestici funziona o potrebbe senza sforzo funzionare con lo stesso voltaggio, per quale astruso motivo ogni produttore sceglie il suo ciaffo, lo correda di una spina proprietaria e lo rende incompatibile non solo con i prodotti di concorrenti ma anche con i suoi?
A tal proposito un quesito flash: pur avendo cellulari della stessa marca, quanti alimentatori diversi dovete avere in casa?

Altra domanda: essendo gli alimentatori specifici per uno ed un solo apparecchio, perché su di essi non c'è un riferimento che leghi i due?
In altre parole: se trovo un alimentatore per casa, quasi mai riesco a risalire a che apparecchio fosse legato. E, viceversa, se voglio alimentare un barlafüs (termine lombardo che sta per oggetto di utilità sconosciuta) trovato per casa, non riesco a capire quale sia il suo alimentatore.
In compenso sull'etichetta ci sono migliaia di simboli e informazioni il cui significato è sconosciuto, e inutile, ai più.

Da ingegnere capisco benissimo i motivi di tutto ciò (il più banale è che separare l'alimentatore permette di adeguarsi alle caratteristiche elettriche di ogni paese semplicemente cambiando quest'ultimo e non l'apparecchio alimentato), ma ritengo che alla base di tutto ci sia solo un motivo economico. Tecnicamente evitare il problema sarebbe possibile ma costerebbe troppo e richiederebbe un coordinamento globale difficilmente ottenibile in un mondo competitivo.

Del resto nell'Europa che pensa a regolamentare la curvatura delle banane esistono almeno 5 tipi di spine elettriche diverse (forse sono di più, ma non mi va di contarle). Ne sono certo perché mi sono arrivate tutte nella confezione della docking station per il mio nuovo HP EliteBook 2530p (per inciso e a mio personalissimo parere, splendida macchina).

Opps... è quasi scarico. Dannazione, qual'è il suo alimentatore?

domenica 8 marzo 2009

L'esperto è attendibile?

In Italia mai. Si parte dal presupposto che chi conosca una materia sia latore automatico di un conflitto di interessi, reale o intellettuale che sia.

Ne abbiamo esempio in questi giorni in cui si torna a parlare di energia nucleare. Così come durante i mondiali di calcio siamo tutti allenatori, durante la coppa america tutti skipper e finanche durante gli europei di curling tutti esperti di ghiaccio e stones, così oggi sembra che ogni italiano sia esperto di fisica nucleare, fissione, trattamento delle scorie e tecnologie correlate.

Curiosamente sono tutti esperti tranne coloro che nel settore lavorano, fanno ricerca o insegnano. Questi ultimi non hanno diritto ad intervenire perché, essendo il nucleare il loro lavoro, le valutazioni che fanno non solo sono considerate di parte (e posso anche capirlo) ma nemmeno attendibili (e questo lo capisco meno).
Cosa ancora più bizzarra, qualora uno di questi si dichiarasse contrario all'atomo diverrebbe immediatamente una fonte infallibile di verità.

Nei giorni seguenti all'accordo italo-francese sul nostro rientro nel settore dell'energia nucleare civile, sui giornali che mettono a disposizione la possibilità di commentare gli articoli si è visto e sentito di tutto. In alcuni casi ho provato ad intervenire senza schierarmi contro o a favore (personalmente sono favorevole) ma, più semplicemente, cercando di correggere errori macroscopici che, peraltro, nulla avevano a che fare con nucleare si o nucleare no. Si trattava di cose da semplice esame di fisica o talmente ovvie da essere invalidate applicando l'aritmetica. Del resto io ho una laurea in ingegneria elettronica e, quindi, non sono del settore. Applicavo solo il buon senso (ne abbiamo parlato in un precedente post), un po' di matematica e qualche conoscenza basilare.
Sono stato coperto di contumelie al punto che ho smesso di intervenire (non posso mettere i link agli interventi perché i giornali di cui parlo non mettono a disposizione permalink affidabili).

Di fatto siamo al paradosso che chi sa non è attendibile e chi non sa è la fonte migliore perché imparziale. Curiosa teoria quella secondo la quale per essere imparziali si debba essere ignoranti.

E poi ci si stupisce della fuga di cervelli: tra i tanti motivi ampiamente dibattuti (fondi alla ricerca, baronie universitarie, mancanza di legami tra università e aziende) penso che anche il senso di inutilità dell'essere esperto possa avere il suo peso.

sabato 7 marzo 2009

Squarci nel buio

Ogni tanto mi capita di essere fulminato da una frase o un pensiero.

Può essere un parto della mia mente, una citazione di altri o una curiosa quanto bizzarra mescolanza dei due. A volte ne viene qualcosa di profondo, a volte di criptico, più spesso qualcosa di irripetibile.
Siccome la mia memoria è quello che è (cioé poca), quando mi è possibile annoto questa specie di flash di agenzia che il mio cervello mi manda. In un futuro potrò così rileggerli e chiedermi, con sgomento, cosa diavolo mi passasse per la testa.

Quando troverete il titolo "Squarci nel buio", quindi, sappiate che il post conterrà una frase o un pensiero. Non aspettatevi nulla di eccezionale o particolarmente significativo: il fatto che per me lo fosse non significa affatto che lo sia anche per voi. In realtà non significa nemmeno che lo sia ancora per me, dato il contesto diverso. E' solo una sorta di memoria storica o, se volete, un'altra forma di parole al vento.

Un avviso: quando saranno parti della mia mente, apporrò il mio nome. In caso fossero citazioni di altri non sempre mi prenderò la briga di indicare chi sia l'autore. Un po' perché non sempre è possibile rintracciare l'origine esatta, soprattutto se si tratta di modi di dire o luoghi comuni, un po' perché ritengo sia irrilevante in questo contesto.
Ovviamente se qualcuno si vedesse citato in forma anonima e volesse vedere indicata la sua firma può contattarmi.

Ed ora ecco il primo squarcio
Il sogno in una bottiglia

Un arrestarsi improvviso del respiro in un posto dove non ci sono parole. Come un segmento isolato di un mondo di sogno, abbandonato in un presente indifferente.
Alla deriva, come un messaggio in bottiglia, si affida ai marosi dell'incomunicabilità, ai frangenti dell'egoismo, alla falsa bonaccia dell'ipocrisia.
E' un urlo racchiuso nel vetro, un graffito tracciato sulla sabbia, a volte una scritta su di un vetro appannato.
Vegeta a lungo, come la saggia luce di una candela o vive lo spazio di un attimo, bruciando tutto quello che ha in una scintilla di immenso scoccata tra il bene e il male.

Roberto Bolis, 1996

venerdì 6 marzo 2009

Blogtiquette e autocitazioni

In altre parole: commentando un post nel blog di un'altra persona è corretto mettere un link ad un post del proprio blog?
Attenzione: non sto dicendo che nel commento non possa scrivere che sul mio blog io abbia trattato quell'argomento.
Solo mi chiedo se sia "elegante" o, se vogliamo, "ben educato" accompagnare la cosa con un link.

Personalmente ritengo che il link non ci voglia (parlo, ovviamente, di link a me stesso non alle fonti di eventuali citazioni che devono esserci sempre, quando possibile).

Di fatto, quando commento, sono in casa d'altri e mi viene automatico comportarmi di conseguenza. Se un amico mi invita a cena a casa sua e mi presenta altre persone, mi sembra maleducato proporre ad una di queste di allontanarsi e andare a casa mia. Posso decantare le bellezze della mia magione e, se vorrà, potrà venire a trovarmi, ma in un secondo tempo.
Allo stesso modo se in un commento cito me stesso, chi vuole può venire sul mio blog, ma non mi sembra bello tentarlo con un link quando sono ospite altrui.

Chissà, forse ho solo il firmware obsoleto.

Videosorveglianza: serve a qualcosa?

Premetto che sono favorevolissimo ad ogni forma di videosorveglianza dei luoghi pubblici o di pubblica utilità e ne accetto senza problemi la violazione della mia privacy.
A condizione però che questo serva a qualcosa.

Un mal interpretato, a mio avviso, diritto alla privacy ci mette invece nella curiosa situazione di poter essere spiati in diretta ma non in differita.

Questo post nasce da una esperienza personale.

Mia moglie lascia l'auto in un noto parcheggio di interscambio della periferia milanese. Un parcheggio a pagamento, oltretutto.
Un giorno, al ritorno, non trova l'auto. Sospettando di aver sbagliato piano o posto, la cerca ovunque, ma non c'è.
L'amara conclusione è che l'abbiano rubata.
Dovete sapere che questo parcheggio presenta videocamere di sorveglianza al gate di ingresso, di uscita e in tutte le aree. Probabilmente se vi mettete un dito nel naso mentre avviate il motore, qualcuno vi vede.
Così si reca alla postazione del personale di custodia per comunicare il fatto. Stante la videosorveglianza non dovrebbe essere difficile verificare se l'auto è stata rubata: anche ammesso che le telecamere non coprissero l'area in cui è avvenuta l'effrazione, sicuramente è stata inquadrata al momento dell'uscita dove c'è una sbarra con telecamera a cui occorre fermarsi ed inserire la tessera (per inciso: come è uscito il ladro? Ci sono tessere in surplus senza match tra ingressi e uscite?).
Amaramente scopre che il personale non ha accesso alle registrazioni per tutela della privacy. Essendoci nella postazione una pletora di monitor che inquadrano in tempo reale ogni angolo del parcheggio questo porta alla bizzarra situazione che abbiamo diritto alla privacy in differita ma non in diretta.
Potrei capire che non possano visionare i filmati di giorni precedenti, ma mi chiedo: se il custode con la coda dell'occhio vedesse una situazione sospetta non sarebbe logico dargli la possibilità di rivedere la scena in modo da verificare l'impressione ed intervenire?

Comunque consegnano a mia moglie un modulo apposito (con una rapidità che mi fa pensare che questi furti non siano una novità) e lei si reca presso la caserma dei Carabinieri competente per la denuncia. Ingenuamente pensa che le forze dell'ordine possano visionare i filmati in tempo utile alle indagini. Invece, con scoramento comprensibile, questi ultimi le confessano che loro la richiesta la fanno immediatamente ma la risposta è che per avere le immagini ci vuole l'intervento dei tecnici e prima di un mese non è possibile.

Un mese? Si, un mese per fare una cosa che con il tastino di FF si fa in pochi minuti e che darebbe alle forze dell'ordine una bella immagine in primo piano del ladro (la telecamera al gate di uscita è frontale e riprende auto, targa e guidatore).

Ho il sospetto che se invece che rubarmi la macchina fossi uscito senza pagare le immagini sarebbero state imediatamente disponibili e mi sarebbe arrivato a casa il conto e, magari, una denuncia.

giovedì 5 marzo 2009

Pericoloso precedente

Ritengo che sia una pessima notizia per il mondo del blog.
Blogging and the Associated Press
by Joe Eitel, 2009-03-04

Recently, the Associated Press stunned the blogging world when they announced that they would start setting guidelines for how writers could use their quotes.
What does this mean?
Well, from now on, bloggers will no longer be able to freely quote from AP articles, even if the quotes link back to the original website.
If writers do otherwise, they could get into legal trouble.
L'articolo completo lo trovate qui.

Se passasse questa interpretazione finiremmo per trovarci negli stessi pasticci in cui si trova il mondo della musica o del cinema: non si saprebbe più cosa dire o pubblicare. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. Cosa si può fare e cosa no.
Ma, soprattutto, saremmo tutti sotto la spada di damocle di una possibile denuncia per aver citato qualcuno.

Il binocolo

Tante volte quello che cerchiamo non lo troviamo perché siamo convinti che sia molto lontano e così teniamo lo sguardo puntato verso l'alto, perdendoci tutto ciò che ci circonda da vicino.
E' un po' come quando si perde qualcosa in casa: il modo migliore per non ritrovarlo è incominciare ad escludere dei posti "perché li non può essere".
In questi casi l'impietosa legge di Murphy ci dice invariabilmente che l'oggetto cercato è proprio in uno dei luoghi esclusi a priori.
Traiamone insegnamento: potrebbe succedere di scoprire che ciò che cerchiamo col binocolo lo si possa vedere anche a occhio nudo, se solo lo si volesse.

Provate a fermarvi un momento, prendete un bel respiro e guardatevi intorno: quante cose meravigliose vedete ma non considerate come tali perché le date per scontate? O perché la loro costante presenza le ha rese trasparenti?

Sarà la mia indole ottimista e fatalista allo stesso tempo ma ritengo che il mondo sia molto migliore di come viene descritto e, spesso, percepito. Solo che il bello non fa notizia e il lamentarsi è più chic che essere felici.

mercoledì 4 marzo 2009

Phishing e vecchio caro buon senso

Sempre più spesso mi trovo nella condizione di osservare come le persone, poste in situazioni nuove o apparentemente tali, rinuncino ad esercitare il vecchio e caro buon senso.

Francamente non ho idea del perché, dovendo accendere un oggetto che presenta dei tasti, molti vadano a tentativi piuttosto che leggere ciò che vi sta scritto sopra. La cosa mi ha sempre affascinato ma non l'ho mai considerata un serio problema finché non è apparso il fenomeno del phishing.

Per chi non lo sapesse si tratta di quel genere di messaggi fasulli (mail o anche SMS) in cui un ente a cui siamo abbonati ci richiede di inserire i nostri dati di login (user e password). Il messaggio appare del tutto legittimo, correttamente formattato con loghi e intestazioni e corredato di un motivo apparentemente valido.

Purtroppo ci sono molti che ci cascano e rispondono, vedendosi spazzolato il conto in banca o altro.

Ma perché questo succede? O meglio: perché succede a persone che, apparentemente, avrebbero tutte le conoscenze necessarie a rendersi conto della truffa?
Lo so che dopo il caso Madoff non dovremmo stupirci più di nulla, però...
Però se si presentasse alla porta di una di queste persone un tizio con la tuta griffata con il logo del produttore della sua cassaforte e questi gli dicesse:
"Da un controllo ci siamo accorti di non avere nei nostri archivi una copia della chiave della sua cassaforte. Ce la darebbe in modo da poterli aggiornare?"
credo che chiamerebbe immediatamente le forze dell'ordine.
Eppure si tratta della stessa persona, messa in una situazione del tutto simile. Allora perché?

Ho l'impressione che la risposta risieda nel fatto che la tecnologia ci stia mettendo a disposizione nuovi strumenti ad una velocità maggiore di quanto la cultura al loro uso corretto possa sostenere.
Il fatto che una persona consideri una chiave fisica degna di protezione e una chiave logica (password) no, è indicativo.

Di tecnologia e cultura all'uso penso che parleremo ancora.

martedì 3 marzo 2009

Internet utile

Nel lontano 1993/94 servii lo Stato passando un anno con la penna in testa. Intendo una penna d'aquila (finta) e non a sfera.

Tornato da quella esperienza (ne riparleremo a proposito dell'utilità o meno del servizio di leva, oggi soppresso), decisi di mettere a disposizione di coloro che stessero per partire alcune informazioni pratiche. Scrissi una paginetta che, all'occorrenza, stampavo e consegnavo all'interessato.

Nel 1997 decisi, con una buona dose di presunzione, che il contenuto meritasse un pubblico più vasto e così la pubblicai sul mio neonato sito internet personale. Fu un successo, per i tempi e conservo gelosamente i mail che gli interessati mi mandarono con ringraziamenti ed upgrade.

Per chi si fosse incuriosito la può trovare riprodotta qui

http://www.robertobolis.com/bs/guidaNeoAlpino.html

(i links di allora sono stati accecati perché non più attivi).

Dur per durà!

lunedì 2 marzo 2009

Informazione push vs informazione pop

In un precedente post avevo detto che avremmo parlato ancora di informazione push vs informazione pop.

Per chiarire cosa intendo per push e pop vi faccio un esempio musicale. Supponiamo che mi venga voglia di ascoltare "Perfect day" di Lou Reed.
Posso accendere la radio, ascoltare e, se sono fortunato, potrebbero trasmetterla. Questa è informazione push: ho una esigenza, forse posso soddisfarla ma non so quando e, nel frattempo, devo sorbirmi un mare di altre informazioni di cui non so cosa farmene. Certo, posso cambiare radio se non mi piace ciò che ascolto, ma passo comunque da una playlist ad un'altra e, perdipiù, rischio di perdere ciò che mi serve.
Se, al contrario, vado su iTunes, cerco Lou Reed e scarico "Perfect day" ho informazione pop. Ottengo ciò che mi serve, quando mi serve e solo quello.

La distinzione è, lo riconosco, essenzialmente basata su aspetti pratici. In realtà se su iTunes non ci fosse "Perfect day" o la radio ammettesse le richieste (o avesse pubblicato il suo palinsesto e questo mi permettesse di sapere la data e ora della messa in onda) i casi si scambierebbero.

Prima di internet l'informazione era essenzialmente push: documentarsi era difficile, costoso e terribilmente lungo (chi non ricorda le ricerche sui giornali microfilmati?). Inoltre richiedeva lo spostamento fisico (dovevi andare in biblioteca o dove risiedeva l'informazione cartacea). Non che non ci fosse la possibilità di una informazione pop, ma questa era riservata ai casi di stretta necessità. In generale si preferiva ricevere dall'esterno un qualcosa di già preconfezionato, il cui contenuto era però fuori dal nostro controllo. I periodici, le riviste, le rassegne stampa sono solo alcuni esempi. La parte pop di questo era la scelta della pubblicazione da comprare o cui abbonarsi.

Direte: anche oggi esistono le newsletters e i periodici on-line.
E' vero, ma il loro scopo è, a mio avviso, mutato. Essi rappresentano una fonte di conoscenza che consultiamo perché esula dal nostro quotidiano ma che non utilizziamo più per le nostre esigenze informative.
Forse sono stato un po' contorto e ricorro ad un esempio: se su una rivista pubblicassero la tabella periodica degli elementi, ai tempi dell'informazione push l'avrei ritagliata e messa da parte perché, se mi fosse servito il peso atomico del bismuto, ne avrei avuto bisogno. Nel tempo di internet non la considererei nemmeno poiché le informazioni che contiene le troverei in un istante anche senza di essa.

Ma, allora, nel mondo di oggi c'é spazio ancora per entrambi i tipi di informazione? A mio avviso, certamente si e mi piace pensare che l'informazione pop sia lo strumento e l'informazione push il piacere. Con il pop otteniamo ciò che ci serve, con il push ciò che non conosciamo.

Personalmente amo ancora sedermi davanti alla televisione e non sapere cosa trasmetteranno. I più bei film o documentari che ricordo sono proprio quelli di cui non avevo mai sentito parlare e che in una televisione on demand non avrei mai cercato.

domenica 1 marzo 2009

Diritto all'oblio in rete

In altre parole: ho diritto che certe informazioni siano sotto il mio controllo anche dopo la loro pubblicazione sul web?

La questione non è da poco e lo spunto mi viene da un post di Roberto Dadda sul suo blog.

Incominciamo con il dire che, a mio avviso, dobbiamo considerare due tipologie di informazioni: quelle che volontariamente pubblichiamo in prima persona, come questi posts o la pagina del profilo, e quelle che altri pubblicano e che ci riguardano.

Le informazioni del primo tipo non mi preoccupano più di tanto: se ho deciso di rendere pubblico qualcosa di me, dovrei aver ben chiaro cosa sto facendo. Il condizionale è d'obbligo considerata l'esistenza di personaggi che mettono sulla loro web page il numero di cellulare e poi si lamentano delle telefonate che ricevono.
Il problema che può sorgere in questo caso è solo di obsolescenza: potrei volere che una informazione venisse eliminata perché non più attuale. Ma questo è un aspetto secondario o facilmente risolvibile contestualizzando temporalmente ciò che mettiamo on-line (basta una data nella pagina e chi la legge può farsi un'idea dell'attualità delle informazioni contenute).

Le informazioni che altri pubblicano su di noi, al contrario, presentano aspetti più critici.
Facciamo un esempio: supponiamo che venga accusato di un crimine abbietto e che un giornale pubblichi la notizia sulla sua versione on-line. Questa viene indicizzata e, nei motori di ricerca, il mio nome associato al crimine. Le indagini proseguono e vengo completamente scagionato ma il giornale non pubblica la notizia nella versione on-line.
Ho diritto che la prima notizia, che mi associa ad un crimine non commesso, sparisca dalla rete?
Si e no allo stesso tempo. Si, perché è una notizia falsa (non ho commesso il fatto). No, perché in quel momento era vera (ero sospettato di aver commesso il fatto).
In realtà una notizia è intrinsecamente un divenire: nasce e si evolve con informazioni successive che possono anche rivoltarla completamente. Non c'è nulla di male a tener traccia di tutti i passaggi. Solo che, appunto, devono esserci tutti, altrimenti la notizia diviene inattendibile.
Più che un diritto all'oblio, peraltro impossibile da ottenere anche per meri motivi pratici, dovremmo poter
avere diritto che, se qualcosa viene pubblicato, lo sia per intero, in modo che il divenire della notizia sia esposto nella sua interezza.
Solo in questo modo la notizia può essere definita tale.

Direte: ma perché questo deve valere solo per la rete e non anche per i giornali cartacei? Avete ragione, teoricamente dovrebbe valere per entrambi ma, a mio avviso, le notizie pubblicate su supporto cartaceo sono già intrinsecamente destinate all'oblio perché limitate in termini di spazio (numero di copie del giornale e sua distribuzione territoriale) e tempo (labilità della memoria umana).
Se mi contatta qualcuno che non conosco non vado certo in emeroteca a cercare il suo nome sui giornali, ma una ricerchina in Google la faccio di sicuro.